«Fuggo dall’inferno del Venezuela. I miei fratelli prigionieri di un cavillo»

Enzo Quilici, figlio di emigrante da San Filippo: «Paese a ferro e fuoco»

Enzo Quilici

Enzo Quilici

Lucca, 28 maggio 2017 - Quando Enzo Rafael Quilici, alla fine degli anni ’50, partì da San Filippo alla volta del Venezuela per cercar fortuna era uno «sbarbatello» appena maggiorenne che sognava un futuro migliore per sé e la sua famiglia. Erano gli anni della Vespa, di Aldo Moro e Fidel Castro, di James Dean e Marlon Brando, ma Enzo, anziché restare nel Belpaese a godersi il «miracolo italiano» decise di emigrare in Sudamerica, in un Paese in forte via di sviluppo e che offriva grandi opportunità a chi come lui aveva voglia di sudare e rimboccarsi le maniche. Mai avrebbe potuto immaginare che, quasi sessant’anni dopo, quel Paese sarebbe diventato una sorta di ‘prigione’ per sua moglie e tre dei suoi quattro figli. Mamma Victoria, Jennyfer, Antonio e Jessica, vorrebbero fuggire dal Venezuela sull’orlo della guerra civile, e raggiungere in Europa Enzo «junior», l’unico della famiglia che è riuscito a volare Oltreoceano. Ma è impossibile, per colpa di un cavillo burocratico.

«Mio padre, al suo arrivo in Venezuela – racconta Enzo – perse la cittadinanza italiana e prese quella venezuelana per poter lavorare in Sudamerica. La riacquistò nel 1993 e nel frattempo si era sposato con mia madre e da lei aveva avuto quattro figli, tutti nati tra il 1966 e il 1976, quando lui era a tutti gli effetti un cittadino venezuelano. Nel ’93 io ero l’unico minorenne della famiglia, per questo è stata concessa anche a me la doppia nazionalità, italiana e venezuelana». Un dettaglio che per molti anni non ha fatto la differenza e che invece si è rivelato un lasciapassare verso la libertà e la salvezza man mano che la situazione in Venezuela si è fatta sempre più incandescente: «Con il passaporto italiano ho potuto lasciare il Paese. Vorrei portare via da lì i miei fratelli e mia madre, ma non ci riesco. Mamma potrebbe lasciare il Venezuela ma ha 73 anni e non se la sente di abbandonare là gli altri figli in pericolo. Mia sorella piange ogni notte e mi ha confidato che la fanno sentire come se fossimo figli di padri diversi». Anche per Enzo la vita non è tutta rose e fiori: «So che i miei familiari, le persone a cui tengo di più sulla faccia della terra, sono a 8mila chilometri da me e io non posso fare niente per metterli al sicuro. Mi sento impotente. Ogni sera chiamo a casa per chiedere se stanno tutti bene e ogni volta ho il timore che possa essere successo loro qualcosa». 

Il Venezuela è di per sé un Paese pericoloso: lo scorso anno si parla di 25mila morti per crimini violenti (rapine, sparatorie, omicidi, sequestri) ma il quadro è peggiorato da quando la popolazione è scesa in piazza per protestare contro il regime del presidente Maduro: «Il governo ha armato i ‘Collettivos’, gruppi para militari che insieme all’esercito e alla polizia rastrellano la capitale Caracas alla ricerca di membri della Resistenza; l’inflazione è alle stelle, mancano medicine e generi alimentari di prima necessità. Per un pacco di farina bisogna fare 5 ore di fila. L’altro giorno i Collettivos hanno fatto irruzione nel condominio in cui vive mio fratello e hanno devastato tutto, compresa la sua macchina; per fortuna a lui non è stato torto un capello». 

Anche Enzo ha avuto i suoi guai con il regime, ben prima che scoppiasse la ‘rivoluzione’ che sta mettendo a ferro e fuoco il Paese da circa due mesi: «Nel 1994 tornai a Lucca, volevo completare gli studi alla Normale di Pisa e stabilirmi qui. Purtroppo mio padre morì poco dopo e dovetti tornare in Venezuela. Mi sono comunque laureato in scienze politiche e ho trovato lavoro al Ministero dello Sviluppo. Mi sono reso conto subito che le cose venivano gestite in maniera illecita; non ho mai apprezzato il modo di amministrare lo Stato di Chavez e nonostante io facessi parte dell’apparato burocratico, ho sempre votato per l’opposizione. Per questo ho subito minacce e addirittura un sequestro. Sì, mi hanno rapito. Mia sorella ha dovuto pagare un riscatto, mi sono state rubate le carte di credito e svuotati i conti. Pensavo fosse uno dei tanti rapimenti a scopo di estorsione, invece quando mi hanno rilasciato mi sono appuntato il numero di targa della macchina con cui i rapitori mi avevano trasportato; era di un poliziotto, che poi è stato anche arrestato. Ma continuavo a trovarmi biglietti appesi alla porta dell’ufficio: ‘attento a scendere le scale’, ‘non prendere l’ascensore da solo’. Alcuni parenti di Lucca, con cui ero rimasto in contatto grazie ai Lucchesi nel Mondo, mi offrirono di tornare in Italia, ma io sono fuggito in Spagna. Qui, dove vorrei poter portare anche la mia famiglia»