Livorno, 4 giugno 2010 - Nel Mediterraneo i fari sono in vendita. Zapatero l’ha formalmente annunciato tra gli indirizzi per risanare il bilancio della Spagna. E anche lo Stato italiano vuol far cassa e vendere, direttamente o tramite gli enti locali, i suoi gioielli. Che sono tanti, quasi sempre in posizioni paesaggisticamente straordinarie e che hanno di fatto funzioni molto ridotte, o addirittura marginali.

 

Un colpo al cuore per chi, navigando di notte sul nostro mare livornese, è abituato da sempre alla confortante sciabolata di luce che accompagna, conforta, qualche volta saluta: uno-due-tre-quattro (poi l’eclisse) è, per esempio, la 'firma' notturna del faro di Livorno: oppure 5 lampi e un eclisse è quello di Capraia. Eccetera. Spengeranno anche il cuore, oltre che ai lampi di guida, a chi ama veleggiare di notte? I fari italiani vanno in vendita, ma forse non li faranno morire. Completamente automatici da anni, gestiti con «remote control» senza più bisogno di faristi-eremiti che ci vivano in simbiosi, oggi i fari sono grandi lanterne che possono sopravvivere anche in cima a un albergo, sul tetto di un residence o di un ristorante.
 

Da Roma vogliono appunto vendere i locali sui quali i fari lavorano da secoli per farne possibilmente alberghi, residence, ristoranti. Si può anche versare una lacrima (metaforica) su questo «new deal»: l’importante però è salvare la funzione. Se per lasciare in vita la lanterna con i suoi lampi nella notte bisognerà trasformare il sotto dell’edificio in una friggitoria, ben venga. Il popolo delle barche saprà accettare e dire anche grazie.
 

I fari in vendita lungo la nostra costa, secondo i piani dello Stato, sono parecchi. Non tutti, perché non tutti si prestano. Per esempio, il faro di Livorno è difficile pensarlo come un ristorante: torre stretta e attorcigliata intorno a una scala interna che lo occupa quasi totalmente, quasi certamente si salverà dall’afrore del fritto misto. Non così però il Focardo di Porto Azzurro, che sorge su un antico forte spagnolo proprio all’ingresso dello splendido fiordo e si presta a diventare una «location» turistica di grido. E così il faro di Portoferraio, davanti a punta Bianca e a fianco delle residenze napoleoniche; e il faro di Capraia, bellissimo sulla punta del Ferraione con un palazzotto di tre piani e una dozzina di locali alla base (già qualche anno fa ci fu una sollevazione degli isolani quando sembrava che la Marina avesse concluso la vendita, ma per fortuna si scoprì che serve d’alloggio ai tre marinai dell’ufficio della Guardia Costiera e saggiamente si bloccò tutto). Eccetera.
 

Poi ci sono i fari minori, ma non per questo meno appetibili. L’Elba ne è ricca: a punta Polveraia, sul monte Poro di Marina di Campo, ce n’è uno arrampicato sulla desolazione di Palmaiola nel canale di Piombino; un faro bellissimo e abbandonato è quello di Pianosa, ormai regno di nidi di gabbiani. E non è detto che non funzionino: perché l’antica alimentazione ad acetilene è da tempo stata rimpiazzata con le bombole di gas che durano a lungo e vengono velocemente sostituite — una volta che il segnale di esaurimento arriva via etere — con un volo di elicottero gestito da Marifari, l’ispettorato della Marina Militare delegato anche alla manutenzione.
 

Rimane un dubbio, e non marginale: se alcuni fari sono certamente panoramici e trasformabili in strutture turistiche, altri di fatto sono isolati, remoti, arrampicati su erte scoscese, raggiungibili — salvo enorme spese per infrastrutture stradali nuove — solo con l’elicottero o per l’antica abnegazione di quella gente davvero speciale e un po’ matta che erano i faristi. Venderli, ma soprattutto acquistarli, non sarà l’ennesimo sogno di una notte di mezz’estate?