La Bonino fa bene a parlare di cancro

La lettera: risponde il vicedirettore della "Nazione"

Il vicedirettore de La Nazione, Mauro Avellini

Il vicedirettore de La Nazione, Mauro Avellini

Firenze, 23 maggio 2015 - Gentile direttore, ho visto che una politica di razza come Emma Bonino non ha rinunciato al suo ruolo di donna forte e anche scomoda, esponendosi mediaticamente nel comunicare a tutti la sua malattia e poi la sua (speriamo definitiva) guarigione dal cancro. Però devo dire che questa esposizione pubblica mi ha turbato. Non è eccessiva?

Gianni Benelli, via mail

La signora Bonino prosegue il suo impegno in coerenza con quanto ha fatto, lungo gli anni, nel campo dei diritti civili. Ha condotto anche stavolta una battaglia: per se stessa e per coloro che soffrono. Dare un nome alle cose significa conoscerle, affrontarle meglio. Ricordo che quando la Bonino si impegnava per il divorzio e l’aborto, queste erano parole tabù. Alla stessa maniera, molti ancora non osano pronunciare la parola ‘tumore’, o ‘cancro’ quasi come se la malattia e la sofferenza fossero una vergogna. Nel caso di questa patologia, certo, siamo nel campo dell’imponderabile ed è difficile una mediazione di tipo metafisico tra il diritto alla vita e la speranza nella scienza. In ogni caso aggredire la malattia anche cominciando a chiamare le cose con il loro nome può contribuire a uno choc positivo, e anche a indurre la comunità scientifica a destinare più risorse per la cura di malattie finora ritenute inguaribili. Gesti a volte ruvidi o clamorosi hanno sortito effetti di cui ha beneficiato l’intera comunità. E la Bonino in questo caso ha anche contribuito a dare speranza a malati che a volte sono portati, per un inspiegabile senso di vergogna, quasi a nascondersi.

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