La Spezia, 13 giugno 2012 - I PANTALONI con la piega ben fatta, una borsa di pelle piena di carte bollate, nella bocca un italiano quasi perfetto. A tradirlo soltanto un lieve accento, che suggerisce la provenienza e racconta una lunga storia fatta di sacrifici, scommesse e di un viaggio incerto attraverso l’Europa in cerca del benessere. Andrei — nome di fantasia scelto per proteggere l’anonimato di chi nella vita ha già patito abbastanza — ha 53 anni, è originario di Bucarest, ma vive in Italia dal 2001.

E’ uno dei camionisti «fantasmi» dell’impero Trusendi: il suo nome non compare nelle liste di mobilità — il dramma di aver lavorato per un decennio senza garanzie si specchia nell’impossibilità di rivendicare il diritto a qualsivoglia paracadute sociale —, men che meno tra i 200 che ancora figurano, al netto degli accordi sindacali e dell’«evaporazione» del sommerso, nell’elenco ufficiale dei dipendenti del gruppo. Lo incontriamo in un ufficio al piano terra della Camera del Lavoro, dove ha trovato assistenza per una vertenza che si preannuncia lunga e difficoltosa.

«SONO arrivato in Italia nel 2001 — racconta — quando ancora c’era la lira: in tasca avevo la mia patente, un bel po’ di esperienza come autotrasportatore e un visto turistico valido tre mesi. Cercavo lavoro e un conoscente mi ha parlato della Trusendi Logistica, che all’epoca aveva la sua sede a Ressora. Sono andato là e mi sono presentato a Trusendi. Mi sembrava un tipo a posto e il piazzale era pieno di motrici e rimorchi. Il giorno dopo avevo in mano un mazzo di chiavi e un camion a mia disposizione». Sembra un esordio da ‘C’era una volta...’, ma la favola si è arenata in un battito d’ali. Andrei ha lavorato per quattro anni nel ‘buio’ assoluto: nessuna garanzia, nessuna copertura assicurativa, neanche un centesimo versato nelle casse dell’Inps. «Mi alzavo alle 4 del mattino e lavoravo in media 14-15 ore al giorno. Sullo stipendio, se così si può chiamare un pagamento in contanti senza alcun riscontro in busta paga, non c’erano regole certe. Il mio oscillava dai 1.200 ai 1.600 euro al mese, ma altri nelle mie condizioni guadagnavano di più o di meno a seconda degli accordi fatti: un tot a chilometro, all’ora, al giorno, in barba a quanto stabilito per legge». Nel 2005 il camionista romeno si è fatto avanti: da alcuni mesi la moglie lo aveva raggiunto in Italia e i figli dovevano frequentare l’asilo, avevano bisogno di assistenza pediatrica, e senza il permesso di soggiorno non c’era verso di ottenere niente di tutto questo, figuriamoci il diritto a percepire gli assegni familiari. Trusendi si è lasciato «intenerire» e gli ha sottoposto il testo di un pre-contratto: una formula di garanzia sufficiente a fargli ottenere le carte richieste. Poi, alla scadenza delle clausole, tutto è piombato nel limbo. E Andrei ha ripreso a lavorare in nero. «Sapevo che le cose non avrebbero dovuto funzionare in quel modo, e qualche volta sono stato sfiorato dall’idea di denunciare la situazione. Poi, però, mi sono fermato, nella consapevolezza che se avessi aperto bocca due giorni dopo sarei stato messo alla porta».
I CONTROLLI c’erano, ma esisteva una pratica consolidata per aggirarli. «La prima cosa che mi è stata detta quando ho messo piede in azienda è stata questa: ‘Se ti fermano e ti chiedono una copia della busta paga e del contratto devi dire che sei in prova, che hai iniziato a lavorare da un paio di giorni e che aspetti di essere regolarizzato’. A quelli non è mai interessata la qualità del lavoro, bastava che le ruote girassero». Dalla Trusendi Logistica il camionista romeno è passato alla Mater, alla Trusendi Italia, alla Cargo Line, seguendo, sempre nell’ombra, le alterne fortune dell’«impero» e delle sue società. Poi nel 2006 è tornato a Bucarest per sottoporsi a un intervento chirurgico e quando tre anni dopo è rientrato in Italia, questa volta da cittadino comunitario, ha trovato una sorpresa: «Trusendi mi ha detto che se avessi voluto lavorare con lui avrei dovuto firmare un regolare contratto con una società con sede a Timisoara. Le condizioni erano queste: 200 euro in busta paga e il resto, circa 1.700 euro mensili, in banconote contanti. Ho ricevuto anche un libretto di lavoro, con tanto di timbri della autorità romene, ma della busta paga non ho mai visto l’ombra. In teoria il mio lavoro si sarebbe dovuto svolgere entro i confini dello stato romeno, con puntate all’estero per veloci operazioni di carico e scarico, ma dal 2009 a oggi non ho più messo piede nel mio paese d’origine. E la situazione è precipitata quando qualcuno ha cominciato a chiedermi una ‘mancia’, circa 300 euro al mese, per salire sul camion». A quella richiesta assurda Andrei ha detto no. E puntuale è arrivato il licenziamento.

Roberta Della Maggesa