Lars Von Trier, il regista delle provocazioni compie 60 anni

Eccentrico e visionario, il miglior regista europeo vivente spegne 60 candeline. Sono trascorsi venti film e trent’anni dal suo primo lungometraggio Cinque scene cult - di CHIARA DI CLEMENTE

Il regista Lars Von Trier (Ansa)

Il regista Lars Von Trier (Ansa)

Roma, 30 aprile 2016 - Gli artisti impertinenti piacciono da giovani. Un po' meno da vecchi. Lars Von Trier compie sessant’anni: non è certo vecchio, visto che il cinema allunga la vita dei registi, ma non può più giovarsi dei vantaggi di quella tendenza a "épater le bourgeois" che è ammessa e quasi richiesta all’artista nell’universo culturale germanico. Lo scandalo insomma è sopito, come dimostra l’accoglienza pacata riservata al suo ultimo doppio film Nymphomaniac e persino le sue uscite estemporanee su Hitler (che lo fecero designare persona non grata al Festiva di Cannes di tre anni fa) sono state dimenticate.

Sono trascorsi venti film e trent’anni dal suo primo lungometraggio The element of crime dove, dietro una trama misteriosa, già si nascondevano i caratteri salienti della sua labirintica e malinconica arte. Eccentrico, visionario, provocatore, il regista danese lo è sempre stato fin dai tempi del Dogma, una sorta di patto tra giovani danesi che avrebbe dovuto rifondare il cinema nel paese di Asta Nielsen e di Carl Th. Dreyer.  Era un mezzo scaltro per richiamare l’attenzione che funzionò anche se le sue regole (povertà di mezzi come garanzia di novità estetica) furono presto dimenticate. Gridare contro Hollywood e votarsi alla castità era comunque a quel tempo una garanzia di visibilità.

La tardiva agnizione (scoprire di non essere figlio di quell’ebreo che aveva sempre considerato padre potrebbe illuminare molti risvolti oscuri del suo cinema) e la fervente adesione ad un cattolicesimo esoterico hanno contribuito a alimentare la leggenda dell’autore maledetto verso il cui solco già si era inizialmente avviato con l’autoiscrizione a una (falsa) nobiltà garantita da quel Von assolutamente farlocco.  Ma a parlare per lui sono fortunatamente i film. Lars Von Trier è forse il maggior regista europeo vivente. L’immaginazione scatenata, la capacità di giocare con i demoni, la travolgente malinconia gli hanno permesso di mettere in fila opere indimenticabili per forza visiva come Le onde del destino, per introspezione psicologica come Gli idioti, per nera visionarietà come Dancer in the dark che, complice Björk gli valse la palma d’oro a Cannes. Era il 2000; da allora Lars von Trier non è stato più discusso.

Il regista più disturbante dopo Buñuel han avuto solo entusiasti fan o accademici esegeti.  Opere come Manderlay, Antichrist, ma soparttutto Melancholia (la doppia luna rimane un’immagine simbolo tra le più efficaci del cinema dei nostri giorni) aprono porte su di un immaginario che è difficile chiudere. Ufficialmente misogino quanto grande maieuta dell’arte interpretativa femminile Lars Von Trier  è stato un precursore delle serie. Molti anni fa realizzò il Regno la sua opera forse più completa (si svolgeva in un tenebroso ospedale) che oggi farebbe la felicità di Amazon o di Netflix. Ma la sua fantasia e il suo ingegno lavorano incessantemente. Sta per uscire The House that Jack Built che segna l’ingresso del regista danese nel mondo superaffollato dei serial killer. C’è da giurare che il suo sarà un approccio unico, sicuramente inusuale.