"Il sacrificio di mio figlio non sia inutile, più sicurezza sul lavoro"

La lettera di Marisa Toraldo, madre di Alessandro Nasta. il nocchiere morì cadendo da un'altezza di 15 metri sulla nave Vespucci

Il nocchiere Alessandro Nasta

Il nocchiere Alessandro Nasta

La Spezia, 20 dicembre 2015 - In merito al rinvio a giudizio degli imputati per la morte di mio figlio Alessandro, ciò che mi preme ribadire è che, durante questa attesa, sia io che la mia famiglia, abbiamo deciso di non voler dar spazio unicamente alla rabbia, ma di voler seguire la strada migliore per poter capire le reali circostanze e le responsabilità che hanno determinato la morte di Alessandro. La conferma del rinvio a giudizio è un momento importante, attraverso il quale, in base a quanto emerso dalle indagini ed agli atti che verranno messi in luce, sarà possibile poter fare chiarezza sugli effettivi scenari che hanno portato al tragico evento. Sono convinta che, in linea con la normativa sulla tutela della salute nei luoghi di lavoro, si possa promuovere il rispetto della legalità, condizione indispensabile affinchè drammi di questa portata non si debbano riproporre.

Durante il periodo delle indagini avrei voluto urlare al mondo ciò che realmente provavo ma non l'ho fatto, per profondo rispetto di chi si stava occupando del caso e perchè solo chi ha vissuto la perdita del proprio figlio può comprendere realmente il mio tormento. Alessandro aveva solamente 29 anni quando, comandato ad effettuare lavori in quota sull'albero di maestra della nave Amerigo Vespucci della Marina Militare, morì precipitando da un'altezza di circa 15 metri schiantandosi sul ponte di coperta. Mi sono sempre sforzata di decifrare tutte quelle mancate giustificazioni di una morte che, sin da subito, avendo visitato il luogo nel quale si era verificata, mi era apparsa drammaticamente prevedibile ed evitabile.

Per un lungo periodo ho continuato ad interrogarmi sul perchè un dispositivo anticaduta non fosse riuscito ad evitargli quel tragico schianto, ma più mi tormentavo con le mie domande, più le risposte convergevano su una sconvolgente presa di coscienza, e cioè che la nave Amerigo Vespucci, il rinomato vanto della marineria italiana, di sicurezza non ne avesse affatto per salvare la vita di Alessandro. E' mai possibile che nel ventunesimo secolo esistano ancora realtà così distanti dai principi di tutela della salute e di sicurezza nei luoghi di lavorori, imposte ai lavoratori, in assoluto contrasto con i riferimenti normativi e militari, in nome di una assurda "tradizione"? Da madre che piange il proprio figlio, morto per quell'assurda tradizione, non posso far finta di nulla e non pretendere di conoscere la verità. Mio figlio non è morto in guerra, è morto durante una ordinaria esercitazione alle vele, una esercitazione straordinariamente lontana dalle condizioni minime di sicurezza stabilite dallo Stato, e durante la quale, nelle operazioni di salita e di discesa, avrebbe dovuto contare prevalentemente sulle proprie braccia e sulle proprie gambe.

Mio figlio è stato ucciso da chi, incurante della legge, ha deciso scientemente di non attuarla, stabilendo che il rischio dei lavori in quota fosse marginale e che un ragazzo di 29 anni non avesse bisogno di un idoneo dispositivo anticaduta, di una formazione adeguata e tantomento di una idoneità espressa da un medico del lavoro. Tutto ciò non è ammissibile, non si può soprassedere. Alessandro ha prestato servizio in marina militare con profonda dedizione e con professionalità, a confermarlo ci sono i suoi colleghi, quei servitori dello Stato di cui purtroppo non si fa adeguata menzione e a cui costantemente rivolgo il mio pensiero.

In questo momento è anche per loro che sento il bisogno di condividere il pensiero che il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano scrisse nella prefazione del libro “Angeli senza ali, morti bianche e sicurezza sul lavoro”, Edizioni Lavoro 2008: "In nessun luogo i lavoratori possono essere trattati come numeri. Il più delle volte, tuttavia, le vittime degli infortuni sul lavoro sono quasi anonime, i loro nomi restano solo un giorno nelle pagine interne dei giornali di provincia, quasi fossero morti naturali. Solo di rado, nei casi di incidenti eclatanti, che coinvolgono più lavoratori, i grandi mezzi di comunicazione paiono assumere consapevolezza di un fenomeno drammatico e, quasi sempre, evitabile." Mi auguro che la morte di mio figlio possa essere motivo di riflessione per tutti e che, nella ricerca della giustizia, la sicurezza nei luoghi di lavoro, in particolar modo nei lavori in quota, possa diventare una delle priorità assolute per la tutela dei lavoratori. Solo perseguendo la via della legalità si sarà fatto tanto per far sì che principi fondamentali, come quello della sicurezza sul lavoro, possano finalmente essere oggetto di condivisione, specie tra chi, come sancito anche dai regolamenti militari, per dovere proprio ha il compito di dover salvaguardare l'integrità fisica del personale dipendente. Per contrastare l’idea dell’inevitabilità di questi incidenti occorre una diversa cultura del lavoro, fondata sul rispetto della vita e sul primato di chi, con il proprio impegno e nel rispetto delle leggi, rende realmente onore al nostro Paese.

Chiedo semplicemente giustizia e rispetto per chi, come Alessandro, nel compiere il proprio dovere, convinto di essere tutelato dalla propria forza armata, ha perso la vita lasciando un vuoto incolmabile. Sono una madre italiana che continua a credere nello Stato, convinta dell'importanza della legalità e della Magistratura, lo devo a mio figlio ed ai valori che gli avevo trasmesso. La sicurezza è, e deve diventare, la migliore delle tradizioni: è una questione di giustizia e di rispetto del diritto di tutela della salute nei luoghi di lavoro.

Marisa Toraldo