La fantasia contro l’Olocausto. Così nacque Topolino nel lager

In mostra a Carrara Show (dal 30 maggio al 2 giugno) e in anteprima all'Istituto francese di Firenze (il 29 maggio) gli albi disegnati da un prigioniero: l’ebreo tedesco Horst Rosenthal / LE IMMAGINI

La copertina di uno degli albi disegnati da Horst Rosenthal

La copertina di uno degli albi disegnati da Horst Rosenthal

Firenze, 27 maggio 2015  - La tragedia dell’Olocausto vista con gli occhi di un topo. No, non parliamo del famosissimo “Maus” di Art Spiegelman (pubblicato negli Stati Uniti tra il 1980 ed il 1991 su “Raw”, ma progettato già negli anni Settanta) ma di un fumetto realizzato “in diretta”, da un prigioniero di un campo di concentramento, Horst Rosenthal, un involontario “inviato” nell’orrore e nella follia nazista. Per raccontare il suo arrivo e la sua vita nel campo di concentramento di Gurs, nei Pirenei, Rosenthal affida a Mickey Mouse, il nostro Topolino, il compito di narratore in prima persona, tra ingenuità e amaro umorismo.

ROSENTHAL si rappresenta nella veste di Mickey Mouse raccontando dell’arrivo al campo, dei compagni di baracca, della distribuzione del pane, del commercio di sigarette sul mercato nero. Un Topolino “apocrifo”, non originale (infatti, nella copertina dell’albetto, l’autore scrive, non senza ironia, «pubblicato senza l’autorizzazione di Walt Disney»), ma che ricorda molto da vicino quello classico di Floyd Gottfredson, mostrando le buone capacità artistiche di Rosenthal. Raccolti in un libro (edito in Francia con il titolo di “Mickey à Gurs”) i disegni di Rosenthal e le sue annotazioni saranno uno dei pezzi forti della prima edizione di “Carrara Show” (festival dei giochi e del fumetto, dal 30 maggio al 2 giugno nella città apuana) che vivrà un’anteprima venerdì 29 alle 18 all’Istituto Francese di Firenze, con la partecipazione di Didier Pasamonik, curatore del volume insieme a Joël Kotek. La storia di Rosenthal è particolarmente drammatica perché lui, ebreo tedesco (nato nel 1915), nel 1933 fugge in Francia per cercare asilo politico. Qui, però, viene internato dalla polizia francese in quanto straniero al momento della dichiarazione di guerra della Germania alla Francia. Con l’occupazione tedesca della Francia e l’avvento del regime di Vichy resterà internato, ma in quanto ebreo, fino alla deportazione ad Auschwitz (nel 1942) dove morirà.

GLI ALBETTI di Rosenthal (che contengono anche una foto del campo, evidentemente fatta nel periodo di relativa libertà all’interno di Gurs) sono composti da varie storielle, la prima delle quali racconta del suo arrivo: mentre passeggia tranquillamente, il Mickey/Horst, viene fermato da un gendarme che gli chiede i documenti. «Non ne ho mai posseduti, io internazionale!». La risposta del poliziotto non è proprio conciliante: «Ah, quindi siete straniero», gli dice e poi lo arresta. Rosenthal trova lo spirito per fare satira sulla vita nel campo e descrive le baracche fatiscenti, il cibo insufficiente, i divieti più o meno assurdi. Nell’ultima tavola, Rosenthal chiude a sorpresa: Topolino si cancella con un colpo di gomma ed emigra in America. Un destino, purtroppo, che l’autore non condividerà con il suo Mickey. «Questo volume – dice Fabio Gadducci, direttore culturale di “Carrara Show” per l’area fumetto – porta alla luce un capitolo sconosciuto della bande dessinée d’Oltralpe: una testimonianza storica ancor oggi di fortissimo impatto, la scoperta di un illustratore impertinente e penetrante come Horst Rosenthal, oltre ad una anticipazione di quella che sarà la più importante rivisitazione dell’orrore nazista, Maus di Art Spiegelman».

GIÀ, perché a colpire è la scelta, in anni e contesti diversissimi, di utilizzare la figura del topo come metafora del popolo ebraico, ma in modo molto diverso come osservano Pasamonik e Kotek, facendo anche un parallelo con Edmond-François Calvo, autore di “La bête est morte!”, «primo fumetto francese a rappresentare la Shoah», come ricorda il critico Matteo Stefanelli. «La maschera di Rosenthal - dicono i due curatori - non è quella dell’obiettività umanista (“l’Ebreo come mio simile” propria di Calvo), della soggettività nazista (“l’Ebreo come un soggetto altro e nocivo”, propria di Spiegelman), bensì della vittima (“l’Ebreo come uomo libero”)».