"Licenziata per ritorsione": la Cassazione mette la parola fine

L'impiegata resta al suo posto. E impugna pure il trasferimento

Call center (Foto archivio)

Call center (Foto archivio)

Grosseto, 24 maggio 2015 - E’ definitivo. Anna Maria Gaudino, la dipendente di un call center gestito prima da Datacompany e poi da Wemay, non doveva essere licenziata. A dirlo, con l’ultima parola, sono i giudici della Corte di Cassazione che hanno respinto il ricorso della compagnia e confermato la sentenza della Corte di Appello, che a maggio dello scorso anno aveva rilevato l’illegittimità del licenziamento. Una battaglia giudiziaria che però non si conclude ancora tra la quarantacinquenne e l’azienda. Dopo essere stati costretti a riassumerla, come disposto dai giudici fiorentini un anno fa, i dirigenti dell’azienda l’hanno trasferita in una sede diversa, motivando il provvedimento con una riorganizzazione, stessa motivazione utilizzata per il licenziamento, il 2 maggio del 2012.

L’impiegata, infatti, ha impugnato anche il trasferimento. Quindi il botta e risposta davanti ai giudici non è concluso. Ha dovuto attendere tre anni, ma era certa, lei, che il licenziamento fosse la ritorsione al suo rifiuto di accettare la riduzione di stipendio per passare a una forma più flessibile propostole dalla società. Dopo il «no» erano iniziati i rapporti difficili, fino al licenziamento giustificato con la classica formula per «riduzione di personale». Salvo poi affidare lo stesso incarico ad altra persona. E’ da questo punto che l’avvocato Alessandro Antichi, che ha assistito Gaudino fino alla Cassazione, è partito per impugnare il licenziamento ritenendolo «nullo, perché discriminatorio». In primo grado, davanti ai giudici del Tribunale di Grosseto, però è arrivata la doccia fredda. «Il licenziamento è legittimo». Non si sono persi d’animo avvocato e cliente e hanno proseguito la battaglia.

La Corte di Appello, il 9 maggio dello scorso anno ha ribaltato il giudizio maremmano, ha riconosciuto nullo il licenziamento e ordinato l’immediato reintegro. Così come ha confermato la sezione lavoro della Corte di Cassazione. I cinque giudici romani hanno sottolineato che «la Gaudino, nell’atto di Appello, ha dettagliatamente esposto le circostanze che proverebbero il motivo ritorsivo. Tra queste alcune conversazioni registrate dalla dipendente con una consulente dell’azienda. «L’azienda non può investire in una persona che per parlarci ha bisogno dell’avvocato», si è sentita dire la Gaudino prima di essere licenziata. Resta aperta la partita del trasferimento, che potrebbe pure questo avere origine dalla volontà di ritorsione nei confronti di una dipendente certo non gradita.

Cristina Rufini