Orbetello (Grosseto), 19 luglio 2011 - «Non lasciatevi prendere dalla disperazione», dice dall’altare don Pietro, con l’accento che ne tradisce l’origine bergamasca. Come se fosse facile farlo davanti alla bara bianca dove dorme per sempre un bimbo di cinque anni, affogato in un giorno d’estate, che doveva essere di festa e giochi. «Non lasciatevi prendere dalla disperazione, guardiamo alla grande lezione di vita che ci viene dalla morte», insiste il vecchio prete. Chissà se i due giovani genitori, seduti sui banchi della prima fila del duomo, hanno la forza per ascoltarlo. Lui, il padre, Cristiano Calussi, 43enne avvocato fiorentino, resta con gli occhi immobili sulla piccola bara quasi ad accarezzare con lo sguardo il figlio nelle prime ore del suo sonno interminabile. E lei, la madre, Lia Belli, invece non ce la fa a vincere il pianto, cercando negli abbracci dei parenti un impossibile conforto.

Vittorio calussi, il loro ultimo figlio, era arrivato a Orbetello per trascorrere il fine settimana dagli zii materni. La mamma era rimasta a casa, a Firenze, e lui domenica scorsa, con la sorellina Laetizia di due anni più grande e il padre, si era avviato sulla spiaggia della Feniglia. Una giornata di mare insiema ad altre miglaia di bagnanti che avevano invaso la zona. «Mettiti la mascherina da sub, dai andiamo...»: erano passate da poco le 15 quando Laetizia e Vittorio si sono tuffati in acqua.

Il Tirreno era percosso da un libeccio vigliacco ma la riva era lì, a due passi, e poi c’era il padre a osservarli dall’arenile. La distrazione di un attimo? Chissà. «Dov’è Vittorio?», ha gridato a un certo punto Cristiano Calussi vedendo Laetizia uscire dall’acqua da sola: «Deve essere là, sta nuotando...». «Dov’è Vittorio?», ha insistito, con il presentimento delle cose brutte che solo i genitori possiedono. Poi lo ha visto. Era a pochi metri da loro, a pelo d’acqua, la faccia rivolta verso il fondo e la mascherina da piccolo sub indosso, come chi fa snorkeling. «Vittorio!», ha gridato più forte il padre lanciandosi in mare. Solo che Vittorio, i polmoni già gonfi d’acqua, non poteva più sentirlo. Forse un’onda lo ha rovesciato e lui ha bevuto, perdendo i sensi; forse una congestione. Ma adesso, con la vita che se n’è andata, a che serve saperlo con esattezza?

«Vittorio è già un angelo in paradiso, e questo episodio ci racconta come la vita di ognuno sia appesa a un filo», dice a bassa voce don Pietro mentre gli occhi della gente si riempiono di lacrime.
Sì, la vita è davvero appesa a una fatalità. Appena Vittorio è stato portato a riva dal padre, qualcuno ha chiamato il 118. Ma la Feniglia è una spiaggia selvaggia con la pineta alle spalle, quasi irraggiungibile dalle auto e senza punti di riferimento. Così i soccorsi sono entrati sul litorale in un punto sbagliato, lontano dal luogo dell’incidente: «Abbiamo corso per un chilometro sull’arenile, col cuore in gola — ha raccontato un operatore —. Abbiamo fatto il possibile. Forse se fossimo riusciti ad arrivare prima...». «No, è colpa mia, è solo colpa mia» sembra abbia invece detto il padre Cristiano, ad assolvere tutti da ogni colpa e a caricarsi dentro un dolore che una vita intera non potrà cancellare.

«Non lasciatevi prendere dalla disperazione. Che dalla morte di Vittorio possa scaturire un senso più profondo della vita umana», incalza don Pietro, guardando gli amici dei genitori, arrivati fin qui da Firenze per star loro vicini. Forse è la rabbia che arriva a caldo dopo le tragedie, ma qualcosa alla Feniglia pare muoversi. «Abbiamo contato tre morti in poco più di un mese, adesso basta — dice Luca Niatana, un biologo che lavora in zona — Non si può accettare che una spiaggia simile sia priva di una postazione fissa di primo soccorso e senza torrette di avvistamento».

Così, insieme ad altri, ha dato vita a un comitato per chiedere un litorale più sicuro. «Metteremo al più presto dei punti di riferimento sulla spiaggia. E’ una cosa che possiamo fare subito. Sul resto dobbiamo capire come muoverci», ha fatto sapere ieri il sindaco Monica Paffetti. E chi di un Paese che prova a correggere il destino solo a tragedia avvenuta. Ma questa non è Orbetello. Questa è l’Italia.

Intanto nel duomo i funerali si avviano al termine. Don Pietro benedice la bara del piccolo Vittorio che fra poco sarà sepolto nel cimitero locale, accanto ai nonni che così potranno vegliare su di lui facendolo sentire meno solo. «Non è Dio che li fa morire, non è Dio», ripete l’anziano prete, quasi a voler chiedere scusa per l’apparente impotenza del Cielo a risolvere una domanda che pare albergare nel cuore di tutti, qui in chiesa: perché portarsi via così un bambino innocente di 5 anni? «Perché se no — disse tempo fa una bimba ricoverata al Meyer di Firenze all’attonito interlocutore — nell’Aldilà ci sarebbero solo i nonni e le nonne». I bambini a volte spiazzano. Proprio come il dolore.