Settantadue anni fa la città in ginocchio per il "bombardamento terroristico"

Don Cecioni ricorda la strage e le dure parole del vescovo Galeazzi

Don Cecioni (Aprili)

Don Cecioni (Aprili)

Grosseto, 26 aprile 2015 - Ricordi nitidi, nonostante i 72 anni trascorsi, ferite non completamente rimarginate e l’amara consapevolezza che non si riesca mai a imparare fino in fondo la lezione che la storia ci consegna. Monsignor Franco Cencioni, il 26 aprile del 1943, era un giovane studente al seminario vescovile e rievocando oggi quei tragici momenti sono queste le sensazioni che emergono. «Era un giorno di festa – racconta come se stesse vedendo le immagini scorrere una dietro l’altra – e a Grosseto non avevamo assolutamente la sensazione di essere in pericolo, nonostante fossimo in piena Guerra Mondiale. Eravamo abituati alla presenza dei militari, con i quali dividevamo anche il seminario. Ma non ci sentivamo in pericolo».

Eppure aerei militari americani all’improvviso, intorno alle 14 di quel Lunedì dell’Angelo spuntarono nel cielo sopra Grosseto, provenienti dal mare, e in pochi istanti fecero piombare la città nella disperazione più assoluta. Bombe a frammentazione caddero in pieno centro abitato, colpendo diversi edifici tra il cuore della città e alcune aree semicentrali al di fuori della cinta muraria. Una strage impensabile soltanto una manciata di istanti prima. «Eravamo ad Alberese – aggiunge monsignor Cencioni – il rettore aveva organizzato con il parroco di Alberese una gita per il giorno di Pasquetta, in occasione della nuova costruzione della chiesa di Santa Maria. Avevamo pranzato con quanto preparato da alcune famiglie. Eravamo impegnati in un partita di calcio quando sentimmo il rumore deflagrante delle bombe. Alzammo gli occhi al cielo e vedemmo chiaramente gli aviatori che si abbassavano. Ci bloccammo all’istante. Turbati. Ricordo che ritornammo subito in città e quando arriviamo al seminario era già invaso dai feriti: una confusione indicibile».

Sotto quelle bombe morirono 134 grossetani, tra i quali molti bambini che si stavano godendo il giorno di festa, felici, sulla giostra allestita in piazza De’ Maria. «Impossibile riferire appieno le sensazioni – prosegue monsignor Cencioni – ma ci sono alcune immagini che sono rimaste impresse, come i quattro aviatori americani ospitati in una cameretta del seminario. Lo ricordo come se fosse ora. Oltre alla grande confusione e ai moltissimi feriti». Ci furono reazioni ferme al bombardamento delle truppe alleate. A partire dall’allora vescovo Paolo Galeazzi.

«Fu un commento fortissimo – ricorda ancora Cencioni – lo definì un ‘bombardamento terroristico’, creando anche un incidente diplomatico tra il Vaticano e gli Stati Uniti». L’aspetto su cui monsignor Cencioni non si dà pace, però, è quanto poco si riesca ad imparare dalla storia. «Durante la messa in suffragio – conclude monsignor Cencioni – ho visto giovani di una società che non so fino a che punto ha imparato la storia. Quando finì la guerra, l’anno successivo, eravamo poverissimi. Non avevamo più niente, ma con la chiara consapevolezza di unirci e ripartire. E così è stato fatto. Purtroppo oggi viviamo in un’epoca che ci ha ridotto a individui, privandoci dell’essere persona. Non è così che si esce dai momenti difficili per ricostruire il futuro».

Cristina Rufini