Firenze,7 aprile 2014 -  «FESTEGGIAMENTI, quali? Magari li ho fatti con il mio lavoro, dove bisogna sempre essere presenti, e mai e poi mai abbassare la guardia né il livello di qualità. Il lavoro mi dà gioia. Non tanto per avere successo, ma per trovare un successo di vera qualità ho fondato una mia compagnia perchè non ho più fiducia negli enti pubblici». Ottant’anni e non dimostrarli nemmeno un po’, affascinante per definizione: Umberto Orsini sarà da martedì a domenica 13 al Teatro della Pergola di Firenze con «Il giuoco delle parti» da Luigi Pirandello, la regia di Roberto Valerio. Lo spettacolo che chiude la stagione è l’ultima delle coproduzioni della Fondazione Teatro della Pergola in questa occasione ha affiancato la nuova Compagnia fondata da Orsini lo scorso anno, un coraggioso e bel regalo per i suoi anni compiuti il 2 aprile.


Maestro qual è stato il regalo più bello?
«Ho ricevuto l’affetto del pubblico a Senigallia città dove non andavo da tempo, e certo non me l’aspettavo. Ma si vede che la gente l’ha saputo dai giornali o dalle televisioni: alla fine dello spettacolo tutto il pubblico mi ha cantato ‘tanti aguri a te’. Ottocento persone che intonano una canzone per te non sono poche. Non è un’emozione scontata, anche se per carattere combatto la commozione, e i sentimenti cerco di riservarli a pochi. Difficilmente piango».
 

Quanto conta il desiderio di ricerca?
«Sono assolutamente contro un sistema che spesso ostacola, ed è una cosa orrenda da vivere. La mia impresa oggi dà lavoro a venti persone, e dovrebbe in qualche modo essere un esempio per altre compagnie che dovrebbero fare produzioni a livello di un teatro stabile».
 

Cosa la disturba del teatro italiano?
«Vado contro le lobby, gli scambi e i mercati: grazie al fatto che il mio nome richiama il pubblico sono riuscito a bucare questo mercato. La mia esperienza e il persistente desiderio di ricerca e di qualità ha guidato la mia vita artistica attraverso una seria preparazione professionale. Il teatro non è in sofferenza, credimi. Sono i teatri il problema».
 

L’obiettivo?
«Contare su un laboratorio di lavoro permanente. Ho preso tanto da tutti quelli che mi hanno preceduto e vorrei lasciare questa eredità a quanti camminano con me ora e cammineranno un giorno senza di me ma carichi, come lo saranno, di una conoscenza che viene da molto lontano e sono felice di trasmettere. La crisi si combatte con la qualità e l’arrogante consapevolezza di fare un mestiere bello e utile».
 

E’ molto arrabbiato?
«Preferisco produrre il mio ‘topone’ da solo e non un ‘topolino’ con una montagna di burocrazia dei teatri italiani. E preferisco che i miei soldi si vedano in scena piuttosto che si perdano negli uffici».
 

Potrebbe dare un consiglio anche ai giovani.
«Osare sempre: a Roma siamo stati quattro settimane, roba impensabile oggi, e abbiamo messo insieme 20mila spettatori. Ho ribaltato la tendenza. Dunque osare, magare fare meno spettacoli, ma farli belli. E gli spettacoli brutti, avere il coraggio di farli cadere. Senza applaudire».