"Quanto maschilismo nei tribunali. Sì, sono scappata da questa Italia"

Intervista alla ragazza protagonista dell’inchiesta giudiziaria

Un'aula di tribunale (Foto d'archivio)

Un'aula di tribunale (Foto d'archivio)

di ILARIA ULIVELLI

NE PARLA con dolore. Vorrebbe dimenticare, se solo bastasse il tempo. Se n’è andata da Firenze. Poi via, sempre più lontano dall’Italia. Violentata. Prima dal branco, e lo ha denunciato nel 2008. Poi, come ha scritto in una lettera aperta pubblicata sul blog ‘Abbatto i muri’, dalle parole della sentenza d’appello che ha assolto i presunti stupratori perché lei, ventiduenne al tempo, aveva un atteggiamento «ambivalente» nei confronti del sesso. Si è aperto un dibattito sul web che censura un modo vecchio, antico, subdolo di colpevolizzare le donne che denunciano violenza. Ma allo stesso tempo il linciaggio morale, gli atteggiamenti indagatori, le offese alla dignità della giovane donna hanno infestato le bacheche internettiane.

Cosa ricorda di quella notte?

«Non ho voglia di tornare su questo argomento. Ho dovuto ripetere con dovizia di particolari a polizia, pm, centro antiviolenza e in sede processuale quello che è successo. Solo un ricordo mi si è stampato nell’anima più di tutto: mentre sospinta e accerchiata dai sette in via Caduti dei Lager mi sono divincolata da loro e sono scappata. Ricordo uno sforzo immane, un dolore alle gambe tese nello scattare il più veloce possibile,   barcollando per via dell’alcol. Purtroppo sono scappata pochi metri più avanti, proprio nella zona più buia, dove sono stata ripresa per un polso. Tuttora se per attraversare un luogo affollato se qualcuno mi afferra inavvertitamente il polso, è ancora molto pesante».

Perché se n’è andata dalla sua città, dall’Italia?

«Dopo la violenza ho vissuto una sindrome post traumatica da stress per molti anni. E anche se sono stata seguita da alcuni psichiatri mi era impossibile andare in giro per Firenze senza avere attacchi di panico o flashback, andare all’università (dove sapevo che studiavano alcuni imputati) e temere di incontrarli. Ho vissuto in un’altra città per alcuni anni, prima con l’intento di ricostruirmi una vita e poi per continuare gli studi che avevo abbandonato. Dopo sono tornata a Firenze, riprovando a studiare o a trovare un lavoro, ma il tempo più che guarire le ferite, sembrava averle infettate ancora di più. Da allora ho viaggiato con progetti di volontariato internazionale». 

La giustizia l’ha ferita. Lei dice che le chiedono ancora nuove prove di colpevolezza del branco. Perché?

«A quanto pare la giustizia italiana si fa sui commenti dei blog e non nei tribunali? Non lo so. Fino a prima di questa vicenda avevo una forte considerazione della giustizia, come valore. Poi sono stata tradita. Dopo tutto ciò non so come commentare, mi sento presa in giro: sono stati applicati giudizi morali alla mia persona che hanno valso di più di referti medici, profili psicologici, testimonianze mie e di altri, perizie della polizia postale e molto altro. Devo forse cambiare l’idea di chi ormai pensa che sono una donna ‘da male’, che non merita di essere protetta, assistita, difesa? Scommettiamo che se i violentatori erano sette magrebini finivano in carcere con processo per direttissima? E invece no, sono ragazzi bene, quindi automaticamente io non sono una vittima, ma una pu...».

Una sentenza moralizzatrice, quindi?

«E’ interessante il fatto di come un maschietto non diventi automaticamente un mostro violentatore se fa un film splatter. Nel mio caso è grave che un’opinione morale abbia scavalcato la credibilità di prove e testimonianze. Avrei voluto che ci fosse Loredana Rotondo a riprendere anche il mio di processo, per mostrare quanto maschilismo c’è nei tribunali e quanto sono contro le donne. Forse adesso servirebbe a capire in che direzione va la nostra nazione».

L’hanno presa a male parole anche su internet: si è domandata perché?

«Tuttora mi pento di aver rilasciato dichiarazioni dopo che leggo commenti misogini da parte di persone mai conosciute che mi additano come “pu... bugiarda” e che augurano che mi sbattano in galera per calunnia. Me!? Che gli imputati e i loro legali si crogiolino su particolari insignificanti a cui é stato dato credito piuttosto che sulle vere prove, lo posso anche capire, anche se è e resta una sentenza da 1965, non 2015. Quello che fa più male è il cyberbullo o il troll digitale, che senza aver letto né sapere nulla della vicenda, si diverte a scrivere minacce e cattiverie gratuite».

Sono passati sette anni, come si è curata le ferite dell’anima?

«La terapia psichiatrica e psicologica ha tamponato il sangue che usciva dalle ferite dell’anima, ma il più l’ho dovuto fare da sola. Ho imparato col tempo il perdono, la compassione. L’amore per me stessa attraverso l’aiutare gli altri, che sia un cane abbandonato o un bambino orfano. E cercare di trasformare la sofferenza in arte, in bellezza». 

C’è qualcosa che vorrebbe dire a chi l’ha violentata?

«Mi dispiace se si sentono delle vittime. A nessuna persona, tantomeno a me che ho sempre difeso i diritti degli ultimi, piace l’idea di dover denunciare un fatto che è punito per legge. Non sono certo io che ho chiesto che venissero incarcerati in via cautelare. Sarebbe stato certamente meglio coltivare l’amicizia con uno di loro, continuare a fare film, laurearmi e via dicendo, se tutto ciò come loro sostengono, non fosse mai accaduto. Sarebbe stato più facile come fa la maggior parte delle donne, cercare di dimenticare, vivere il trauma da sola, distillare il dolore nel silenzio».

E invece?

« Io ho deciso di fare in un altro modo. Non li odio, anche se hanno rovinato la mia giovinezza, in qualche modo li comprendo. Sono i figli malati di un mondo malato, a cui nessuno ha mai insegnato che le donne sono persone che hanno diritto di replica, diritto di esistenza, diritto a reclamare uno stile di vita piuttosto che un altro senza per questo dare un biglietto da visita per uno stupro. Mi dispiace e ho pena per loro, per la loro anima. In questa sentenza non ho perso io, ha perso la civiltà, il sistema di valori su cui si fonda la nostra vita, i rapporti tra uomo e donna».

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