Firenze, 1 febbraio 2013 - L’interesse della ditta, probabilmente. O la convergenza di interessi fra chi sa di giocarsi la carriera politica nei prossimi 24 giorni e chi, invece, vorrebbe fare la stessa cosa ma un po’ più in là nel tempo. Fatto sta che oggi alle 18, il leader del Pd Pierluigi Bersani e il rottamatore Matteo Renzi saranno i protagonisti di un comizio a due dal sapore insolito. L’uno accanto all’altro sullo stesso palco, quello dell’Obi Hall sul lungarno fiorentino, in una manifestazione elettorale che vorrebbe essere la rappresentazione plastica di un Pd che, dopo la stagione degli scontri e dei veleni (finita 60 a 40 per il segretario), ha ritrovato un’unita interna solida e che, per questo, si avvia a chiedere con convinzione il voto agli italiani per tornare al governo del Paese. Una realtà politica o solo uno spot elettorale? Chissà.
 

Certo è che questo two man show in qualche modo era atteso. Lo era da quando il 4 gennaio scorso, in un ristorante romano, i due siglarono una sorta di armistizio dopo la guerra delle Primarie. «Il Pd è un partito all’americana, dove il timone è nelle mani di Pier Luigi, mentre io darò una mano», disse lo stesso Renzi alzandosi da tavola e annunciando il suo impegno in prima persona nella campagna elettorale del Pd.
Il fatto, dunque, che oggi i due tengano questo comizio a due voci a Firenze e che poi il sindaco rottamatore parta per un mini tour nelle regioni in bilico per il centrosinistra (sarà in Campania, in Lombardia e in Piemonte con chiusura in Emilia e una parentesi tv lunedì sera dalla Gruber sulla 7) non dovrebbe stupire. Eppure, in qualche modo molte cose che stanno attorno a questo passo a due colpiscono.
 

Colpisce, ad esempio, vedere Renzi annunciare che i suoi deputati saranno «più bersaniani di Bersani». O tacere sul disastro Mps. Lui, che dopo essere stato accusato da Bersani di stare «coi finanzieri delle Cayman», aveva risposto denunciando proprio l’abbraccio innaturale fra una parte del Pd (l’ala dalemiana dei Ds) e il Monte («In sei mesi hanno distrutto quanto i senesi hanno costruito in 600 anni»).


E colpisce poi, dall’altra parte, non sentire più levarsi un Fassina di turno a srotolare improperi contro il berluschino di destra. O uno come il segretario fiorentino del Pd, Patrizio Mecacci, quello che annunciò che non avrebbe mai votato per Renzi in caso di una sua vittoria alle primarie, avere parole d’oro per il sindaco: «Ora siamo un partito coeso, forte, affidabile per governare l’Italia». O, addirittura, lo stesso D’Alema spandere miele sul rottamatore, «uno che si sta comportando molto bene. Apprezzo la sua stoffa di leader soprattutto dopo la sua battaglia politica». Roba da far stropicciare gli occhi. Da Reality politico. Una sòla dei famosi. Ma in fondo, a pensarci bene, tutto ciò è legittimato dall’interesse reciproco dei due.


Mentre a Bersani questa vicinanza con Matteo Renzi dona di nuovo una visibilità mediatica mai più intercettata dal tempo delle Primarie, a Renzi la lealtà con la “ditta” manifestata così esplicitamente può tornare buona per il futuro. Quando, nel caso dovesse andar male il tentativo di Bersani a Palazzo Chigi, lui si riproporrebbe come candidato naturale del centrosinistra. Fantapolitica, roba che rimanda alla metafora del tacchino sul tetto, potrebbe obiettare Bersani. Dimenticandosi, però, che a far fuori il tacchino Prodi a suo tempo non fu l’Arcicaccia ma lo stesso centrosinistra. In una situazione che, oggettivamente, per molti versi somiglia venatoriamente a quella di oggi.