"Ho fumato il narghilè ai piedi del Biancone, il prezzo da pagare ai tempi senz’anima"

La cultura meltpop globale: ahinoi, anche il Rinascimento ha un sapor mediorentale

Narghilè in un bar davanti a Palazzo Vecchio (Giuseppe Cabras/New Press Photo)

Narghilè in un bar davanti a Palazzo Vecchio (Giuseppe Cabras/New Press Photo)

Firenze, 23 giugno 2016 - Per carità, nella vita di cose pseudo esotiche ne ho fatte: profumarmi col Patchouli, indossare i maglioni peruviani al liceo e farmi piacere le nuvolette di drago al ristorante cinese. Ma, come faccio adesso, aspirare con la shisha in un sottofondo di musica araba proprio qui, di fronte a quella che fu la casa di Cosimo de’ Medici, più che un sentore di fumo aromatizzato alla melassa, lascia lo stesso in bocca qualcosa di indefinito.

Forse lo spaesamento di chi non ha più bussole geografiche di riferimento. O forse, semplicemente, la smarrimento di chi, come un bischero, si sente fuori sincrono con la meraviglia rinascimentale di Firenze. Fumare il narghilè ai piedi di Palazzo Vecchio. Eccomi qua.

Per carità: questa moda di offrire ai tavolini dei bar questa pipa ad acqua tipica dei balcani e del medio oriente, non è una prerogativa della sola Firenze. Ma che ciò abbia in qualche modo contaminato l’anima di una città che da sempre ha fatto della difesa delle sue tradizioni una bandiera, colpisce eccome.

«Ce lo chiedono i turisti», dice gentilmente Andrea, il titolare del bar San Firenze che da due anni mette a disposizione dei clienti i narghilè. E può essere una spiegazione pragmatica, visto che attorno a me altri quattro clienti a due tavoli fanno gorgogliare l’acqua della shisha in un borbottio da cistite meccanica. Ma non è solo perché il mercato suggerisce una domanda che uno senta l’obbligo di attrezzarsi: se il turismo di massa fosse solleticato dalla corrida, si dovrebbe fare una plaza de toros a Gavinana? Da uomo polveroso del Novecento, resto ancorato all’idea che il meraviglioso del mondo dovrebbe essere la diversità che nasce dalle singole tradizioni, non lo smarrirsi in un esotico indefinito che sa di plastica. Plastica, come il bocchino con il quale aspiro fumo al sapore di mela e mandarino sotto gli occhi divertiti di una guida americana: «Oh really, narghilè here?».

La sorpresa di trovare cose e costumi che dovrebbero trovarsi altrove. Anche per questo, in un città che non sa più cos’è la Candelora e ha perso da tempo il gusto della Rificolona, ritrovarsi a fumicare con fare levantino proprio accanto a via del Corno, dove Pratolini raccontò la fiorentinità più struggente nelle cronache dei suoi poveri amanti, non può che lascaire perplessi.

Pare però che la cosa funzioni. «Noi abbiamo la shisha migliore, ma poco più in là, in borgo dei Greci, la sera trovate anche degli abusivi che offrono il narghilè ai turisti, ma è tutta un’altra cosa», dice il cameriere maghrebino addetto a portare le pipe ai clienti. Intanto gli avventori accanto a me ridendo alzano ampie volute di fumo, la musica araba di sottofondo culla, il tabacco picchia in testa: se non fosse per il Biancone che in lontananza osserva il tutto con marmoreo distacco, sembrerebbe quasi di essere nei vicoli del Cairo o sotto gli aranci di Tunisi. Una follia? L’indistinto della globalizzazione. Ora: voi vi chiederete chi sono gli avventori. «Di due tipi – ha spiegato il titolare – Chi lo fuma regolarmente come gli arabi, e chi lo usa saltuariamente per passare il tempo in compagnia». Comunque gente che può permetterselo, visto che la spesa non è proletaria: un narghilè per tre persone costa 25 euro. L’impressione a caldo, insomma, è che tutto ciò sia il prodotto di uno smarrimento collettivo. Che questa sia l’ultima frontiera del relativismo culturale. Parole grosse.

Poi, mentre il sole caldo del giugno ritrovato cala oltre la torre del Bargello, uno ci ripensa. Ripensa a ciò che siamo stati capaci di deglutire in questi ultimi anni a Firenze senza mai un colpo di tosse salvifico. Ripensa ai brunch, ai wine bar e alle apericene; rimedita sulla suggestione mefistofelica di McDonald’s, che ci ha fatto sembrare moderne le ‘svizzerine’ ribattezzandole ‘hamburger’; riflette sulla miriade di ristoranti pseudo cinesi, pseudo giapponesi, pseudo tutto che ci hanno fatto ritenere di serie B il lampredotto e tutta la famiglia allargata delle trippe; riflette che ai mercanti di Apple sono state date le chiavi di piazza della Repubblica come se ciò fosse un inno alla modernità di pensiero e non una nuova frontiera commerciale.

E alla fine, mentre il fumo morbido alla mela e al mandarino ti fa girare la testa, vien quasi da pensare che questo della shisha ai piedi di Palazzo Vecchio sia quasi la pagliuzza e non la trave. Quasi un’indolenza inevitabile, un costo da pagare, ahimè, ai tempi nuovi senz’anima. Buona fumata a tutti.

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