Firenze, 19 febbraio 2012 - «Vedremo cosa succederà, per ora attendo di conoscere gli addebiti che mi vengono mossi. Ma se tornassi indietro farei la stessa scelta». La sovrintendente Cristina Acidini resta convinta che quel «Cristo» sia di Michelangelo, ma ora dovrà convincere anche i giudici della Corte dei Conti, che l’accusano di aver procurato un danno all’erario. Ossia di aver sperperato soldi dei cittadini per un’opera del Buonarroti che del Buonarroti potrebbe non essere. Insieme a lei niente meno che l’attuale sottosegretario del Ministero dei Beni culturali Roberto Cecchi, all’epoca direttore del ministero, altri dirigenti fra cui Bruno de Santis (nel frattempo andato in pensione) e l’intero comitato di storici dell’arte chiamati a valutare il capolavoro che si stava acquistando dall’antiquario torinese Giancarlo Gallino. 

 

Tutto risale al 2008, quando quel «Cristo» alto appena 41,3 centimetri e largo 39,7 in legno di tiglio e databile nell’ultimo decennio del Quattrocento, costò alla sovrintendenza fiorentina, per conto del Ministero, 3,2 milioni. In effetti, se fosse della mano di Michelangelo giovane — come sostiene Antonio Paolucci — sarebbe stato un affarone. Ma se invece è opera di un pregiato, ma pur sempre anonimo, artista fiorentino del quindicesimo secolo — è la convinzione di Mina Gregori — allora è un prezzo da capogiro.

 

Per la corte dei conti il Buonarroti non ci ha messo neanche un dito su quel crocifissino. Pare ce ne siano almeno una decina simili a giro, e riconducibile quindi a un’opera seriale della bottega di qualche artigiano. Per cui il prezzo congruo, il massimo che secondo il «censore» dello Stato si sarebbe dovuto spendere per quell’opera, era 700mila euro. Non uno spicciolo di più.
 

 

Considerato ciò, per quel «colpo» — così fu ritenuto da molti — messo a segno dal polo museale con la benedizione dei più illustri critici d’arte, la Corte dei Conti ha formalizzato gli «inviti a dedurre» a tutti i protagonisti della vicenda. L’onore di firmare l’acquisto del «Cristino» — datato 1495 e attribuito alla fase giovanile del genio di Michelangelo — toccò al ministro Sandro Bondi, dopo una trafila cominciata con Giovanna Melandri poi passata a Francesco Rutelli. Bondi oggi rivendica «bontà e correttezza» della procedura seguita: «Non ho alcuna difficoltà a ricordare che la decisione di acquistare tale opera venne presa da me, all’epoca, in qualità di ministro dei Beni culturali, con il parere vincolante del comitato tecnico consultivo, sia per quanto riguarda l’attribuzione sia relativamente al costo della scultura lignea».
 

 

Nessuna perplessità neppure da parte di Roberto Cecchi, direttamente chiamato a rispondere di quella spesa: «Nel 2008 la Corte dei Conti ha dato legittimità all’acquisto — afferma — registrando il contratto relativo. Certo, non posso nascondere l’amarezza per questo accanimento di cui è difficile capire i contorni. E ricordo che eravamo tutti d’accordo, anche il professore Salvatore Settis che allora era il presidente del Consiglio Superiore dei Beni culturali».

 

Ma tanto per continuare la querelle che da otto anni continua a dividere gli storici dell’arte italiani e stranieri, Settis replica: «Non ho alcun ricordo che il Consiglio superiore dei beni culturali, quando io lo presiedevo, si sia occupato del Crocifisso acquistato dal Mibac». Resta il fatto che, dopo la trionfale tournée del 2008 quando il «Cristo» fu portato in pellegrinaggio per televisioni e città, la scultura che si ritiene di Michelangelo è rimasta chiusa e imballata in un cassone della soprintendenza. Al Museo del Bargello si era anche tratteggiata una vaga ipotesi di allestimento; ma evidentemente la presenza di quel crocifisso è davvero ingombrante e imbarazzante.