Calcio storico, ecco chi sono i gladiatori del sabbione

I volti, le storie, i muscoli e i cazzotti dei protagonisti dei quattro rioni del calcio storico che il 24 giugno gioca la finale sul campo di Santa Croce

Calcio storico (foto archivio Press Photo)

Calcio storico (foto archivio Press Photo)

Firenze, 23 giugno 2017 - “Uno sport violento? E’ fuori dal campo che è importante dimostrare di essere brave persone”. Ruvidi all’aspetto e gentili nell’anima: ecco i volti, le storie, i muscoli e i cazzotti dei protagonisti dei quattro rioni del calcio storico che domani gioca la finale sul campo di Santa Croce.

Alessandro Pagliazzi (foto Virgilio)

"Lacrime e sudore sono benzina pura"

Alessandro Pagliazzi
Alessandro Pagliazzi

Di preciso non ricorda quanti anni aveva quel giorno in cui scappò di casa, in borgo Allegri, per andare a vedere giocare i suoi verdi in Santa Croce. Ma era piccino e non aveva le chiavi di casa: s’inventò un marchingegno con un filo alla serratura per poter rientrare prima che la mamma tornasse dal lavoro e gliele desse di santa ragione. Quella volta non ne buscò, ma le prese quando si arrampicò coi suoi amici sulla gru più alta di Firenze che dovettero arrivare i pompieri. Alessandro Pagliazzi è un verde di Santa Croce... Come sarebbe a dire? Nel ‘78 verdi e azzurri si divisero, prima erano insieme: «Gli azzurri di Santa Croce si erano trasferiti alle Case minime di Rovezzano e al Ponte di Mezzo, noi di Santa Croce rimanemmo coi verdi». A 23 anni l’esordio in campo. Quale emozione? «Quella infinita, che provo ogni volta che entro in piazza: i brividi sulla schiena, la lacrima che scende e si mescola al sudore. È sempre uguale, anzi è sempre più forte». Sandro ha una moglie e due figli, il più piccino ha 3 anni e sì, lui vorrebbe che continuasse la tradizione del babbo. «Dovremmo tramandarcela di padre in figlio, il calcio storico è un’altra opera d’arte di Firenze: il mimmo è nato per San Giovanni, avrà un grande futuro». Insomma, il calcio in costume è qualcosa da esportare in tutto il mondo, perché, come dice i’Pagliazzi mentre scodella ai clienti la carbonara dell’Osteria de’Benci («mondiale, la più buona, sfido chiunque»): «La fiorentinità non è solo pittura, scultura, architettura ma anche un gioco, tra i più antichi al mondo con un regolamento così dettagliato». Perché Firenze è Firenze. Ma ha un difetto? «Sì, noi fiorentini. Non ci va mai bene nulla». Guardandosi allo specchio vede un uomo testardo, generoso e sempre disponibile. La canzone del cuore? Quella che ascoltava quando è nata sua figlia Isabella, Lisa Stansfield e George Michael che si rincorrono con la voce sul pentagramma. Ma quando deve prepararsi alla sfida si carica con L’ultimo dei mohicani.

 

Alessio Di Giulio

"Digh e quella tartaruga pronta per la guerra"

Alessio Di Giulio
Alessio Di Giulio

NON la sfama a foglie d’insalata nel giardinetto, ma la cura con lo scrupolo di un sarto nel rifinire un’asola: la tartaruga di Digh, come lo chiamano nel nome del padre, comincia dai pettorali scolpiti e va giù. Palestra, allenamenti. Che il calcio storico è un affare di famiglia in casa Di Giulio: il babbo (Digh, appunto) e lo zio calcianti azzurri, i cugini e il cognato del babbo: verdi. «Si vive per la maglia, mica come i calciatori che sono quasi tutti mercenari: noi non si cambia, siamo gente che nel colore ci crede davvero». Alessio ha sfilato a 5 anni per la prima volta, col babbo, il suo mito per sempre che ora lo guarda dalle stelle. Ha cominciato a allenarsi a 15 anni, con i ‘vecchi’, con lo Zena, con quelli che erano i ‘giovani’ quando su padre era sul sabbione dove lui ha esordito a 18 anni: «Prima che fossi maggiorenne i miei non hanno voluto» racconta. Un po’ bambolotto, un Cicciobello che se gli togli il ciuccio spara una raffica di cazzotti, un po’ Rocky, Alessio è un bravo ragazzo: «Noi violenti? Il calcio in costume è uno sport di contatto. La battaglia ci sta. Ma è fuori dal campo che ciascuno dimostra ciò che è». Socialmente impegnato e sempre pronto a dare una mano. Attaccato alla sua città come fosse una seconda mamma. Di Giulio jr sa come si fa a farsi amare. LUI che da adolescente correva in moto, con la 125 era arrivato a gareggiare al campionato italiano e a quello europeo, «poi servivano troppi soldi e ho lasciato perdere». A 19 si è diplomato cuoco al Buontalenti, «ma io ho fatto di tutto, sono uno stakanovista». Ora sogna di aprire un locale tutto suo. Coi motori nel cuore e il pugilato nelle vene: «E’ uno sport nobile, bisogna conoscerlo prima di giudicarlo» dice Alessio. Che ascolta la musica dei Coldplay, 50 Cent e Club Dogo, canta sotto la doccia «Il ragazzo della via Gluck» e Narciso Parigi, guida i bus della ex Lazzi, distribuendo sorrisi soprattutto a chi ne ha più bisogno. A 35 anni è pronto per tornare, dopo un brutto infortunio a una spalla. Gli altri, di lui, dicono che è altruista e solare. E nel calcio storico, chi è? «Un bravo giocatore deve dimostrare un animo nobile e guerriero». E questa tradizione cosa rappresenta per la città? «E’ Firenze, la storia di una città che nel 500 era la più potente al mondo.C’erano i Medici, straordinari: ho un unico tatuaggio su tutta la schiena e rappresenta lo stemma mediceo. Avanti Fiorenza nel mondo».

 

Riccardo Lo Bue

"Un «maori» dal cuore grande. E rosso" 

Riccardo Lo Bue
Riccardo Lo Bue

ROSSO come il suo cuore grande: altruista e generoso con un carattere ruvido. Rosso come la forza della carpa che si trasforma in drago sulla sua pelle istoriata come un arazzo: «Il primo tatuaggio? A 16 anni, dopo averne passato uno intero a convincere i miei». Riccardo Lo Bue è un guerriero maori, uno di quelli che non molla dal principio alla fine. «Mi volevo tatuare perché a me piace avere il corpo decorato». Si può leggergli addosso: c’è il gagliardetto dei rossi, il colore dei colori. «Rossi per sempre», dice, spiegando che l’Isolotto, quando era piccino lui (che a settembre farà 38 anni) e correva in bicicletta per le strade del quartiere, era diventata la casa dei rossi. Vai a capirci nella geografia dei colori: la città è un patchwork. E guai a sbagliare. Tornando ai tattoo, dall’alto verso il basso sulle montagne russe scolpite in palestra tra lotta, pugilato e pesi, c’è una croce con la scritta: gloria e libertà. «Ciò che tutti vorremmo». Poi la Madonna di Guadalupe. «Amo il Sudamerica, sono stato tante volte in Messico: per me è un portafortuna». Sulla coscia c’è la voce del calcio storico: l’Artusi di profilo. Da 70 a 95 chili per cancellare la paura dal vocabolario. «Mi piacciono le sfide, sempre contro il più forte per dare di più». È testardo, Riccardone: dopo le medie si è trovato un lavoro. Tanti lavori. «Quello mi dispiace un po’... non aver mai avuto l’ambizione per una professione». A Riccardo un giorno piacerebbe aprire un chiosco con la storia dei colori, «per far vivere questa tradizione, esportarla». Ma il progetto non ha mai trovato né ali né gambe. La prima volta sul sabbione? A 19 anni. «Tante volte mi dico, ora smetto. Ma questo gioco è un pezzo di me». Guai a giudicarlo dall’apparenza. È un orsacchiotto, il Lo Bue. Ma non fatelo arrabbiare facendo torto a un debole. Braveheart è la sua colonna sonora.

 

Fabrizio Valleri

"I muscoli? Da soli non battono la paura"

Fabrizio Valleri
Fabrizio Valleri

EROI. Per lui erano superuomini. Miti irraggiungibili. Mica ragazzoni cresciuti a pane, Fiorenza e cazzotti nel muso. «Veri dei», col colore e il calore del rione stampato nel dna, con la maglia cucita a pelle per tutta la vita. Una sola. E bianca per sempre. A 9 anni, in piazza del Carmine, il battesimo da spettatore al calcio storico: «Fu una partita turbolenta, finita a fumogeni, mia mamma non c’è tornata mai più». A 27 la prima sul sabbione: «Tardi, ma ho cominciato per caso, con quei ragazzi che mi dicevano ‘dai, vieni’». «Diventare uno di loro? No, davvero non credevo fosse possibile». Perché Fabrizio Valleri, il Vallero (quasi) per tutti, non era un armadio quattrostagioni: «Avevo una corporatura normale, anche se poi ho capito che il vero giocatore lo vedi più dal coraggio che dai muscoli: la qualità di un calciante è la forza di reagire alla paura, in qualsiasi modo». Nato in via del Campuccio 40anni fa, il Vallero il rione non l’ha mai lasciato, neppure quando si è sposato e ha messo su famiglia: una moglie e due figli, «l’amore è tutto, non si sbaglia». Santo Spirito nell’anima di una «Firenze città più bella del mondo: per noi è così». Anche se tante volte, lui che nella vita (dopo il calciatore) avrebbe voluto fare il viaggiatore di professione, ha pensato di andare lontano, «mica per sempre, per un tempo di esilio utile a cancellarne i difetti: per tornare e amarla più di prima». Consigliere di Quartiere 1 per la lista Scaletti, i’ Valleri i problemi del centro li prende in faccia: più i problemi che i pugni, quelli ha imparato bene a schivarli. La scuola di pugilato ha fatto il suo: «Qui non faccio il politico, eh - sorride - sono un calciante. Ma vedere il centro che si spopola di fiorentini mi fa male: perché una città non è solo monumenti e chiese ma anche la sua gente». Il Vallero è un uomo senza hobby, «non mi piacciono, non ho bisogno di riempirmi la vita: se mi va di fare una cosa la faccio». Ascolta tutta la musica ma preferisce De Andrè. «Bocca di rosa, bellissima, la prima che mi viene a mente». L’ultimo libro: «Un trattato di alchimia, ci ho capito poco o niente. Di romanzi ne avrò letti due in tutta la vita e nemmeno ricordo quali». Ha studiato da agronomo e ha finito per aprire un ristorante nel suo quartiere. «Il bello del calcio storico è che è l’ultima tradizione sopravvissuta qui e mi dispiace che si parli troppo della violenza che fa parte dell’essere umano, ma il vero valore civico non esce mai fuori: siamo stati liberi davvero solo nella Repubblica Fiorentina. Viva Fiorenza».

è arrivata su WhatsApp

Per ricevere le notizie selezionate dalla redazione in modo semplice e sicuro