Firenze, 15 dicembre 2013 - SI ACCENDE il dibattito sul futuro della città. Molte le sfide alla soglia delle elezioni amministrative: affrontare la crisi e i temi del welfare, sciogliere i nodi delle infrastrutture, tanto per citarne alcuni. A Firenze serve un un progetto di ampie prospettive. La Nazione ha raccolto l’input lanciato in un’intervista dal presidente dell’Osservatorio Giovani-Editori Andrea Ceccherini per avviare un confronto sul tema: «Ai fiorentini dico: sappiate giocare più in attacco e meno in difesa» ha sottolineato puntando l’attenzione sul bisogno di un piano strategico per la città.
Dopo le interviste anche a Lamberto Frescobaldi e a Paolo Fresco il dibattito continua con l’interessante intervista al cardinale arcivescovo Giuseppe Betori.

 

PARTIAMO da lì, dalla madre di tutte le domande. Eminenza, c’è ancora ruggine con il sindaco Renzi, il nuovo totem degli italiani che piacciono? «Sa che anche in Vaticano appena mi vedono, mi chiedono di lui?», confessa divertito il cardinale Giuseppe Betori. «Ruggine no». Incomprensione? «Non parlerei di incomprensione, abbiamo un buon rapporto istituzionale, collaboriamo con cordialità. C’è stata una diversa valutazione su un mio intervento che poi è l’intervento tipico di tutti i vescovi nel giorno del patrono, quando fanno una riflessione sullo stato della città, non dell’amministrazione».
 

Lui l’ha presa male, però.
«L’unica frase che poteva riguardarlo era che “le istituzioni non vanno lasciate sole”. Il resto riguardava la cultura della città, che deve riscoprire le sue basi umanistiche. Ne sono ancora convinto».
 

Non sarà che Firenze è troppo impegnata a guardare indietro per trovare stimoli e andare avanti?
«La mia impressione è che la capacità creativa non sia globalmente venuta meno. Ci sono alcuni aspetti che faticano a stare al passo con i tempi, questo sì. Se penso alla carità, alla solidarietà e al volontariato oggi non vedo meno impegno, innovazione e proposta rispetto all’esperienza sia antica che del secolo scorso.
 

Allora quali sono i punti deboli?
«Il lavoro e lo sviluppo economico. La città soffre questa involuzione. Eppure vengo da una visita pastorale in cui ho toccato con mano che sul nostro territorio sono presenti eccellenze impensabili, a livello industriale e di innovazione tecnologica, che farebbero invidia anche alla silycon volley.
 

Per esempio?
«Una componente essenziale delle testate dei motori di quasi tutte le motociclette d’Europa viene prodotta nel Mugello dall’azienda Tecnol, qualcuno non lo sa: ma lì c’è una piccola industria che crea lavoro. Che tutti i grandi ambienti, dai Paesi Arabi, alla Cina all’America, alla Città del Vaticano vengono puliti con delle macchine prodotte nella zona di Firenzuola, dall’azienda Ing. fiorentini qualcuno non lo sa. Tutti conosciamo il successo mondiale della Rosss che produce scaffalature. E l’Antico setificio fiorentino, una continuità di Firenze, grazie a Stefano Ricci ha ripreso un vigore che stava perdendo e si è rilanciato sui mercati.»
 

Quindi che cosa manca per rialzare la testa?
«Sono andato a trovare gli operai della Shelbox che fabbricano casette di legno per tutta Europa, ma una difficoltà gestionale sta gettando nella disperazione 130 famiglie e probabilmente si arriverà alla perdita di un’eccellenza del nostro territorio. In altri casi mancano i capitali o non c’è rinnovamento del marketing, allora perdiamo benzina e il motore si ferma».
 

A proposito di lavoro: il patto per Firenze che lei aveva lanciato è rimasto un appello inascoltato.
«Dal punto di vista della sensibilità ho ricevuto diversi consensi, da parte degli industriali e dei sindacati. Non siamo riusciti a dare corpo all’iniziativa, ma questo era un compito che non spettava a me».
 

Perché non è stata trovato un punto d’incontro?
«La società fiorentina vive sull’articolazione delle posizioni, ma quando questa diventa frammentazione e non trova la strada della coesione, ecco, qui tocchiamo un punto di debolezza.»
Che cosa dovremmo dire ai giovani per motivarli ad affrontare il domani con più forza e coraggio?
«Ci sono giovani stanchi ma anche giovani vogliosi di lavorare e di imporsi per creare un progetto di vita. C’è bisogno di una cultura più profonda della persona umana. Questo è il vero problema che sta a fondo delle questioni economiche e generazionali. Si sta diffondendo una impostazione debole del concetto di persona, delle sue potenzialità e della sua dignità, che poi si traduce in una mancanza di coraggio».
 

 

Come si può uscire?
«Papa Francesco, che viene da una società diversa dalle nostre occidentali, ha un riscontro da parte di tutti, giovani e anziani, proprio perchè richiama sia la possibilità dell’uomo di risorgere, grazie all’annuncio della misericordia, ma anche perchè prospetta delle speranza reali alla persona».
 

Dovremo guardare più dentro di noi che fuori.
«Il nostro Papa ha una sua immagine molto efficace: dice che il tempo è più importante dello spazio, i processi sono più importanti di quello che si è acquisito. Questa è la cultura di cui abbiamo bisogno».
 

Secondo lei quali sono le emergenze da affrontare subito.
«L’emergenza culturale è la più importante. Se noi ritorniamo a un concetto vero di persona, siamo in grado di cambiare le premesse per il lavoro, per la convivenza sociale, e diamo speranza alle nuove generazioni. Il lavoro culturale è molto più profondo di un cambiamento di assetti solo economici».
 

Firenze avrebbe bisogno di attrarre intelligenze e capitali ma non ci riesce. E’ la ricetta giusta?
«Scommetterei di più sulle risorse interne. E sulla capacità di creare un tessuto che dia consistenza e struttura imprenditoriale alle virtualità fiorentine».
 

Non tutti la pensano così. Forse perchè siamo troppo critici con noi stessi?
«Non credo all’importazione di una identità diversa da quella che Firenze ha sempre avuto, e che ha saputo far emergere l’intelligenza, la creatività, il genio artistico, grazie alle capacità operative - le botteghe di una volta - che hanno tradotto il tutto in idee vincenti».
 

Esiste un problema sicurezza e degrado?
«Non mi sento di dare giudizi. Registro quello che leggo e vedo. E’ un problema, ma non di organizzazione della città, tanto meno di amministrazione. E’ un problema di cultura. Se noi sappiamo dare un’offerta non semplicemente fruitiva delle bellezze che abbiamo ma propositiva di valori, credo sarà diffficile che l’americano o il giapponese di turno vadano a scrivere sulla lanterna del Duomo».
 

Lei dice che bisogna riprenderci la nostra identità umanistica e non mostrare le opere fuori dal contesto per cui sono nate. Che significa?
«Prenda il David di Michelangelo: così come oggi ci viene proposto, dentro l’Accademia, viene esaltato come un vertice di bellezza puramente formale. Laddove invece chi l’ha pensato, Michelangelo, lo ha fatto in risposta a una richiesta dell’Opera del Duomo, che gli chiedeva un’immagine che prefigurasse Cristo. Che poi la città, attraverso il gonfaloniere Soderini volle far proprio, anche perchè era la città stessa che si identificava nella libertà data da Cristo»
 

Perciò finì in piazza della Signoria...
«Gesù Cristo Re del popolo fiorentino. La libertà che David rappresenta, è la libertà che è assicurata da Gesù Cristo e da nessun altro Signore di questo mondo. Come facciamo a trasmettere questa cultura se noi stessi un po’ l’abbiamo persa?»
 

Che significato ha per Firenze che un esponente del cattolicesimo di sinistra - dopo La Pira e Pistelli - sia diventato il leader proprio del maggiore partito della sinistra?
«Gli elementi di continuità ci sono ma sono altrettanto forti quelli di discontinuità fra due stagioni del cattolicesimo politico molto diverse fra loro. Quella di La Pira fu una stagione in cui il confronto ideologico era al primo punto dell’agenda politica: quel mondo ha esaurito la sua potenzialità. Renzi ha un suo proprio percorso politico in un mondo meno ideologico e più progettuale.»
 

Abbiamo visto suore andare a votare per Renzi, che effetto le fa?
«Dobbiamo riconoscere anche a chi ha un’appartenenza alla vita consacrata, la libertà di essere un cittadino. Non dimentichiamo che all’origine del partito popolare c’era un prete».
Come si prepara Firenze alla visita del Papa nel 2015?
«La Conferenza episcopale ha scelto Firenze come luogo del suo convegno decennale, dal 9 al 12 novembre 2015. La Cei ha invitato il Santo Padre ma ufficialmente non c’è una risposta, anche se il Papa tradizionalmente è stato sempre presente. Noi lo aspettiamo».
 

Quale sarà il ruolo della Diocesi?
«La Chiesa di Firenze deve assicurare un supporto organizzativo, noi non entriamo nella individuazione dei temi e nell’articolazione dei lavori. Abbiamo già costituito un comitato con tutte le istituzioni. La localizzazione di gran parte dei lavori dovrebbe essere alla Fortezza da Basso».
 

Anche questa sarà un’occasione mondiale da non perdere.
«Verranno 2500 delegati dalle 226 diocesi d’Italia, rappresentanti da tutto il mondo, anche di Chiese non cattoliche e di altre religioni. C’è una grande collaborazione con la Fondazione di Palazzo Strozzi perché si pensa a mostre e a collegamenti con il centenario dantesco. L’inagurazione sarà in Duomo e il Papa lo riceveremo qui».
 

Eminenza, che cosa le è rimasto della vicenda dell’aggressione subita due anni fa?
«Prima di tutto la consapevolezza che il Signore mi ha messo le mani sulla testa. La serenità con cui ho vissuto quei momenti è stato un segnale di affidamento a Dio e alla parola della sua grazia. La seconda è una grande compassione, perchè arrivare a pensare che si può entrare in episcopio per aggredire il vescovo - a quale fine non si è ben capito, anche se io mi oriento più per la ipotesi del tentativo di rapina che altro - dà la misura del degrado della società e di come si arrivi a calpestare anche la sacralità di certi luoghi. E poi voglio anche esprimere la gratitudine e la stima per le forze dell’ordine e la magistratura, che hanno risolto il caso con intelligenza».
 

Da dove Firenze può trarre un’idea per i prossimi vent’anni, come richiesto da Andrea Ceccherini e sviluppato nel dibattito sul nostro giornale?
«Quello su cui si deve puntare in generale è una trasformazione culturale: rimettere l’uomo al centro. La crisi che stiamo vuivendo nasce dall’aver anteposto la finanza e il profitto alla persona. E’ necessario ridare piena dignità a ogni essere umano».
 

Che augurio si sente di fare ai fiorentini per il Natale e per il 2014?
«Che ci sia più lavoro. Se c’è il lavoro c’è una casa, se c’è una casa c’è lo spazio per gli affetti, le relazioni umane e la costruzione di un futuro per le nuove generazioni. Il Natale è poesia ma è anche una grande esperienza di precarietà, perché Gesù nasce in una situazione di assoluta precarietà. E in una società in cui questa condizione è una delle caratteristiche più forti, abbiamo bisogno del messaggio positivo che viene dal Natale precario di Gesù».

 

Marcello Mancini