di STEFANO BROGIONI

Firenze, 4 dicembre 2013 -  IN VIA GIUSEPPE Di Vittorio si ha la sensazione che non finisca soltanto il territorio di Firenze. Via Di Vittorio è un passo indietro, forse anche due. E’ la contraddizione tra un mondo griffato e le cassette di ortaggi accatastate su un asfalto marcio, tra i diritti acquisiti e la fabbrica-dormitorio, tra la cucitrice infaticabile e la biciclettina di un bambino. E’ il confine tra quello che si vede e quello che non si dovrebbe vedere, in una strada intitolata a una bandiera del sindacalismo italiano.
 

 

Via Di Vittorio è l’arteria principale di Chinatown. E’ qui che, ogni mattina, s’improvvisa un mercato, ad uso e consumo della comunità dagli occhi mandorla che qui ha trovato terreno fertile e capannoni.
La polizia municipale, che quando si fa vedere da queste parti usa un furgone con il riconoscimento in ideogrammi, arriva, sequestra e sanziona. Ma il giorno dopo si ricomincia da capo. E così ieri mattina, 48 ore dopo la tragedia di Prato, le donne escono in fretta dalle pelletterie e dalle confezioni, riempiono i sacchetti e tornano ai loro banconi. Il pranzo si consumerà lì dentro, così come la cena. E passerà pure la notte.
Alla fiera del sommerso passa pure il catering: all’approssimarsi di mezzogiorno, i furgoni girano tra i capannoni. Hanno tinozze di cibo già pronto, gli operai— qualcuno con i bambini in braccio — si procurano il loro piatto. Il vivandiere, con tanto di grambiule come l’oste, fa le porzioni. Non serve essere guardinghi, succede tutto alla luce del sole. L’ansia sorge quando davanti a un capannone, intravedono la nostra macchina fotografica. Quello che stava sulla porta corre dentro, grida qualcosa in cinese, c’è movimento. Probabilmente ci hanno scambiati per finanzieri oppure temono che la presenza degli obiettivi sia il preambolo di un controllo come quelli che, da domenica in qua, si ripetono a Prato.

 

Durante questi blitz, i clandestini sono i primi a fuggire. Sono stati trovati ovunque, sui tetti o dentro i tombini. Passato il pericolo, si torna a lavorare. Ma forse il pericolo è proprio lì dentro, fra cavi fatiscenti e allacciamenti provvisori.
VIA AVOGADRO, via Fermi, via Righi: all’ombra dell’Ikea è un pullulare di attività. Borse, portafogli e vestiti. Vendite all’ingrosso ma, se c’hai i soldi, non importa che tu sia un commerciante. Lo sa bene la guardia di finanza, che batte questi capannoni oramai da anni. I sequestri non fanno più notizia, almeno fino a quando l’illegalità è diventata tragedia. L’Osmannoro è la punta dell’iceberg. Ma pensare che le concentrazioni cinesi si esauriscano qua sarebbe un errore. Gli insediamenti, a Firenze e provincia, sono a macchia di leopardo. Mai nelle aree rurali, ma sempre vicine a un distretto. Come a quello scandiccese della pelletteria, oppure nella bassa empolese, fino alla Valdera, polo delle conce. Manodopera a disposizione di due tipi di mercato: quello del lusso, dove i cinesi sono ormai partner stabili delle nostre aziende, e quello del falso. Non sarà un caso se, come dimostrano gli studi dell’ufficio statistica di Palazzo Vecchio, la concentrazione più numerosa di cinesi sia nel quartiere di San Lorenzo, la “patria” della contraffazione.