Firenze, 27 maggio 2013 - «Non ci pensai un secondo. Presi quel bimbo in braccio, aveva il volto insanguinato. Gli chiesi come si chiamava e con un filo di voce mi rispose ‘Federico’».

Emiliano Betti, una discreta carriera da portiere iniziata nelle giovanili viola, venti anni dopo racconta per la prima volta che lui, giovane e incosciente, fu tra i primi ad arrivare in via Lambertesca subito dopo lo scoppio di quella maledetta bomba. Solo ora Emiliano — adesso preparatore dei portieri della Primavera viola — ha deciso di raccontare come abbia portato fuori dal palazzo sventrato dall’ordigno quel bambino oggi diventato grande e che ieri sera ha incontrato dopo venti anni.

Perchè aspettare tanto? «Perchè sono scene che cerchi di non ricordare e hai il timore di riaprire ferite profonde di altri dicendo ‘sono io che ti ha soccorso quella notte’».

Quando ha raccontato la sua storia alla trasmissione ‘Piazza Duomo’ di Radio Toscana, condotta da Stefano Prizio, gli è venuto da piangere. «Sono passati 20 anni, ma il ricordo di quella notte non si è mai affievolito. Ero in centro con un amico e sentimmo un boato enorme. Non ci pensai un attimo e mi infilai in via Lambertesca. L’aria era irrespirabile. Il silenzio era surreale, camminavo sui detriti, vedevo le travi che ciondolavano dai tetti. Nemmeno nei film...».

Emiliano si infilò tra le macerie «armato» di una sciarpa del Marsiglia (era stato a vedere la finale di Champions da una amica e aveva quella sciarpa per prenderla in giro, lei tifosa milanista) che gli servì, stretta sulla bocca, per respirare alla meglio e arrivare davanti al palazzo sventrato e ancora in fiamme, con il cuore in gola. «E’ vero — riprende — pensai di tornare indietro, come fece il mio amico. Era pericoloso, però c’era qualcuno sotto quelle macerie... Vidi ombre che faticavano a muoversi dentro un palazzo, in mezzo al fumo e al caos. Allora entrai, io avevo le scarpe, ma quelle persone erano scalze, c’era una signora anziana che piangeva, non trovava l’uscita. La presi per mano e la portai fuori, era disperata, cercava un bambino. Tornai dentro e sentii un lamento, poi vidi quella figura minuscola, un bambino che era una maschera di sangue. Per fortuna quella ferita — prosegue Emiliano — era solo superficiale, ma come saperlo allora. Per questo lasciai Federico solo davanti al negozio ‘Gerard’ dove mi vennero incontro i primi soccorritori».

L’immagine di quel bambino avvolto dalla polvere e dal fumo lo ha accompagnato in tutti questi anni. «Per tutti questi anni non ho più visto Federico – racconta ancora Emiliano Betti – oggi è un uomo e io non l’ho mai dimenticato, era un cucciolo che mi teneva stretto al collo, non voleva staccarsi. Nella corsa gli dissi di non preoccuparsi, gli dissi che giocavo nella Fiorentina e che se mi fosse venuto a trovare nei giorni successivi gli avrei regalato la maglia».

Ieri sera si sono riabbracciati. In via dei Gergofili. Emiliano ha portato a Federico proprio la sciarpa del Marsiglia di quella sera. Federico era emozionato. Anche lui non può aver cancellato quella notte terribile.

Oggi, musicista, laureato in scienze politiche, un lavoro in una agenzia formativa, abita di nuovo (da pochi anni) proprio in via Lambertesca. Quando esplose la bomba aveva solo 12 anni. «Ci eravamo precipitati giù con mia madre — dice — lui mi prese in braccio e mi portò all’ambulanza. Mi disse che giocava nella Fiorentina.... Sono felice di riabbracciarlo».

Già, la Fiorentina. Quell’anno stava lottando per non retrocedere e Betti, pur infortunato, non doveva essere fuori a quell’ora. Non sarebbe stato giusto nei confronti dei compagni. «Mi ero operato al tendine — riprende — e la domenica (per Fiorentina-Udinese, ndr) non sarei stato convocato. Ma non avrei giocato comunque perchè con quella corsa da via Lambertesca a piazza della Signoria mi erano saltati i punti...».

Quella notte Emiliano, dopo aver ritrovato il suo amico, decise di andare all’ospedale di Santa Maria Nuova dov’erano stati portati i feriti: «Mi sistemai in un angolo del pronto soccorso, mi estraniai completamente perchè sembrava tutto così surreale. Solo dopo ore trovai la forza di andare a casa, per dormire ci vollero giorni...».

di GIAMPAOLO MARCHINI