di EMANUELE BALDI

Firenze, 15 novembre 2012 - NOTTE di lunedì, viale Pieraccini. Mancano una manciata di minuti alle due. Il policlinico di Careggi è una cattedrale nel deserto. Fuori dall’ospedale, un pachiderma multiforme spalmato sulla collina nord della città, fiore all’occhiello della sanità toscana, il buio sembra petrolio. Dalle finestre arriva però la luce gialla e netta dei neon. Un ospedale, d’altronde, non si ferma mai. Ma non sempre, scopriremo in questa “passeggiata” tra i reparti, viene presidiato e controllato allo stesso modo. Sono le una e 49 quando arriviamo al cancello di villa Monna Tessa, clinica urologica. E’ aperto, ma all’ingresso non c’è nessuno.

 

Percorriamo qualche metro, saliamo le scalette e ci troviamo davanti il gabbiotto dove una volta stazionava il portiere di notte. Sì, appunto, una volta. Perché ora non c’è nessuno nemmeno qui. Eravamo convinti che qualcuno ci avrebbe fermato, che ci avrebbe chiesto chi fossimo o quale fosse la nostra direzione. Macché. Non è andata così. Apriamo la porta. C’è il deserto. Di vigilantes neanche l’ombra. Avanziamo. Prendiamo l’ascensore e pigiamo un tasto, dopo dieci secondi la porta si spalanca sul corridoio del secondo piano che ospita le sale operatorie endoscopiche. Luce e silenzio. Per cinque minuti gironzoliamo, stando attenti a non toccare niente, da una stanza a un’altra. Nessuno ci ferma, nessuno ci dice nulla. Per una semplice ragione: non c’è anima viva. Eppure qua dentro, in linea teorica, potremmo fare qualsiasi cosa. Rubare, se fossimo dei ladri. Spaccare tutto, se fossimo dei balordi. O combinare qualche guaio, se fossimo sotto effetto di qualche droga o semplicemente imbevuti di alcol. Non lo siamo, per fortuna.

 

Però questa cosa ci torna poco lo stesso. I cassetti con i medicinali non sono sotto chiave: basta un lieve tocco con la mano e lo scaffale scorre via “offrendoci” decine di scatolette di ogni genere. Passiamo vicino agli “attrezzi” del mestiere, alle garze, ai camici. Potremmo perfino indossarli e andare a una festa. Usciamo. E’ passato un quarto d’ora buono. Fuori intravediamo la macchina della vigilanza. A bordo ci sono due addetti alla sicurezza. Fanno la “spola”, scopriremo poi, tra Monna Tessa, un’area tutto sommato piccola, e il labirinto dell’ospedale, sull’altro lato del viale Pieraccini dove ci sono decine di padiglioni e reparti: oncologia, chirurgia, radioterapia, unità spinale e via dicendo. La loro, però, è una specie di corsa contro il tempo. Fino a qualche settimana fa, veniamo a sapere, gli addetti alla sicurezza erano quattro, le auto in servizio di notte due. La “spending review” in salsa sanitaria però avrebbe fatto sì che la seconda pattuglia di metronotte venisse cancellata (infatti in quaranta minuti non l’abbiamo mai vista). Così come il controllore della sala monitor dell’ospedale.

 

Di notte le telecamere filmano per un occhio umano che, di fatto, fino al giorno dopo non c’è. Il nostro secondo “tour” è una fotocopia del primo, nel dedalo di San Luca dove tutto è “a portata di mano”. L’unica, minuscola differenza, è che prima di prendere uno dei tanti ascensori, dopo aver superato una sbarra automatica, incrociamo un dipendente con alcuni sacchi colmi di lenzuola. Non ci chiede niente. Saliamo così in uno dei padiglioni. Al secondo piano, al quarto, poi di nuovo giù al terzo.Tutto acceso, tutto aperto. Sono le due e dieci. Careggi dorme e per entrare in una sala operatoria ci basterebbe spingere un maniglione. Tutte le porte, fatta eccezione per un piccolo bagno di servizio curiosamente chiuso a chiave, si possono tranquillamente aprire. Stiamo altri dieci minuti, usciamo e ce ne andiamo. Con una domanda in testa: tra un mese arriverà il freddo vero e, come ogni inverno, le stanze calde di Careggi diventeranno il rifugio dei senzatetto e degli sbandati della zona. Dove siamo entrati noi potrebbero benissimo entrare loro. E quel che non abbiamo toccato noi, potrebbero toccarlo loro.