Firenze, 13 ottobre 2011 - APRILE 1865. Il trasferimento della capitale da Torino a Firenze è in corso. La città che conta circa 115.000 abitanti ne accoglie altri trentamila, nel giro di poche settimane: col Re, parlamentari, diplomatici, giornalisti, ma soprattutto impiegati di uffici e ministeri, gli anonimi “Monsiù Travet”, con le rispettive famiglie.
 

 

Il clima è teso, tutti sono scontenti: i piemontesi “costretti” a lasciare la propria città e non per Roma; i fiorentini “costretti” ad accoglierli, con le conseguenze derivanti dalla massiccia “invasione” dei “buzzurri”, come venivano definiti per il loro linguaggio tutt’altro che comprensibile: aumento vertiginoso degli affitti e del costo della vita, la città trasformata in un frenetico cantiere.

 

“UNA TAZZA di veleno che ci tocca sorbire”, era stato il commento eloquente di Bettino Ricasoli alla notizia della scelta di Firenze quale nuova capitale, nel settembre 1864, a seguito degli accordi con Napoleone III per il ritiro delle truppe francesi da Roma. I fiorentini accoglieranno con affetto e simpatia il sovrano, meno la classe politica, irritati da certi recenti provvedimenti quale l’introduzione della denuncia personale della ricchezza mobile, l’aumento dei sali e dei tabacchi che ispira le caricature del Lampione, al pari del rincaro degli affitti.
Che tipo di vita dovevano attendersi le famiglie piemontesi sbalzate sulle rive dell’Arno?
 

 

E’ IL QUESITO che si pone il compilatore della “guida pratica popolare” – un’assoluta rarità bibliografica – ripubblicata da La Nazione, il quotidiano che dal 1859 registra nelle cronache, insieme agli eventi della vita politica, umori e malumori dei fiorentini. Una guida semplice ed immediata, senza richiamo alcuno alle bellezze artistiche ma una serie di utili informazioni sulla vita di ogni giorno per padri e madri di famiglia. L’immagine della città, le abitudini, le abitazioni, i generi alimentari, osterie e trattorie, passeggiate e collegamenti, scuole e teatri. Undici, tutt’altro che pochi, i teatri aperti per spettacoli di prosa, musica e ballo. Il fascino particolare della guida è che ignora l’aspetto ufficiale della città, per privilegiare la battaglia quotidiana dei meno abbienti.
 

 

NON SI PARLA dei restaurant più noti, ma delle trattorie e delle osterie; non dei caffè letterari ma dei pizzicagnoli che danno anche da mangiare, sul posto, per pochi centesimi. Il più noto, Gigi Porco, al canto delle cinque lampade, all’angolo fra via Bufalini e via Ricasoli, meta fino a notte fonda di giovani artisti con pochi mezzi.
 

 

PRIMA di andare al Caffè Michelangelo, erano frequentatori assidui della bettola di Gigi Porco Telemaco Signorini, Moricci e Borrani, Fattori e Altamura. Non mancavano i politici, quali Guerrazzi (in tempi lontani) e Beppe Dolfi, il fornaio mazziniano di borgo San Lorenzo che aveva ispirato e animato la pacifica rivoluzione del 27 aprile 1859.
Fra i primi e fedeli clienti vi è Carlo Lorenzini, che ricorda in Occhi e nasi le tre sole osterie aperte fino a tarda notte, quelle di Gigi Porco, di Beppe Sudicio e di Cencio Porcheria: i nomi affibbiati ai proprietari riflettono il degrado degli ambienti.
 

 

ANCHE CARDUCCI sul filo della memoria, rievocava con nostalgia la spensieratezza delle serate trascorse in gioventù da Gigi Porco, autentica “faccia di ciompo da bene”.
 

 

VI SI RECAVA con qualche coetaneo a notte inoltrata e pretendeva un menù particolare: galletto arrosto, innaffiato da un fiasco di vino. “Dopo le otto ci lasciavamo”. Erano le otto del mattino: già da due ore il giovane e sconosciuto piemontese Giovanni Giolitti stava lavorando al ministero delle Finanze, agli ordini di Quintino Sella.