Firenze, 25 gennaio 2011 – Stefan Adler 20 anni … Marisa Ancona 19 anni … Mirella Bemporad 21 anni … Caterina Lombroso 16 anni & hellip.

Sono le una e mezzo del pomeriggio quando la voce dei ragazzi del treno toscano della memoria squarcia il silenzio del campo di sterminio di Birkenau, il più grande attorno ad Auschwitz. Un nome urlato nel silenzio, custodito da ciascun ragazzo fin dalla partenza, una storia da raccontare ed una fiaccola accesa in mano, per non dimenticare. Nomi di giovani deportati, in qualche caso addirittura di bambini e neonati. Cognomi che si ripetono con insistenza e che danno bene l’idea di intere famiglie sterminate. I più infatti sono morti e solo qualcuno è sopravvissuto.

La cerimonia al monumento internazionale del campo di Birkenau, dove un tempo c’erano i quattro forni crematori e le camere a gas capaci di inghiottire duemila persone per volta , è uno dei momenti più carichi di emozioni del primo giorno toscano nei lager polacchi. Una cerimonia iniziata appunto con il lungo elenco di ebrei, rom, sinti e ‘diversi’ rinchiusi nei lager nazisti, proseguita con la commemorazione ufficiale del presidente della Toscana Enrico Rossi e terminata con tre preghiere: una in lingua rom, una cattolica e la terza ebraica, forse la più toccante, recitata da Guidobaldo Passigli, rappresentate della comunità ebraica fiorentina, per i ‘bambini barbaramente sgozzati, impiccati, annegati o sepolti vivi’ nei campi di sterminio, affinché “la terra non copra il loro sangue e non soffochi il loro grido’. Un monito, esplicito, a non dimenticare.

I ragazzi ascoltano distribuiti a semicerchio di fronte al monumento. Qualche scalino più sopra, davanti a loro, ci sono i gonfaloni della Regione Toscana, del Comune e della Provincia di Firenze, dell’associazione dei deportati e dell’arma dei carabinieri. Da Firenze sono arrivate anche le chiarine, che intonano il silenzio. Poi è il momento dell’inno d’Italia, cantato da molti ma sommessamente. Con un pizzico di pudore e quasi in segno di rispetto, non senza qualche lacrima che riga i volti.

 

QUATTRO ORE NEL LAGER DEGLI ORRORI

 

 

La giornata era comunque iniziata molto prima, subito dopo le 8.30, quando il treno proveniente da Firenze è arrivato alla stazione di Oswiecim al termine di un viaggio iniziato a mezzogiorno di lunedì.

Quattro ore nel freddo e in gran parte sotto le neve danno solo una timida e parziale rappresentazione delle crudeltà e della vita in un campo di sterminio. Ma è abbastanza perché ti venga un groppo alla gola. O per provare rabbia e vergogna. La leggi negli occhi dei tanti, giovani ed adulti, che camminano sui sentieri carichi di neve rinchiusi tra il filo spinato e fiancheggiati da garritte o di fronte ai vagoni bestiame piombati ancora sui binari, gli stessi che portarono donne, uomini e bambini verso l’anticamera dell’inferno, a destra la morte sicura e a sinistra (forse) la speranza di sopravvivere.

Birkenau era il campo più grande degli oltre quaranta attorno ad Auschwitz: 175 ettari, un settore per gli uomini, un altro per le donne, un terzo per i bambini ma anche un paio di villaggi ‘propagandistici’, realizzati ad arte dai nazisti per cercare di nascondere la realtà.
Fu il secondo ad essere costruito, nel 1941: un anno dopo Auschwitz I e un anno prima di Monowitz, il campo di Primo Levi, utilizzando terreni e case espropriate ai polacchi che nel dopoguerra sono poi tornati. Non senza però qualche polemica, per le case costruite a ridosso del lager.

Due cerbiatti saltano nella neve mentre la lunga fila indiana si sposta dalla juderampen, la banchina ferroviaria ottocento metri fuori dal campo, la stessa dove arrivavano tutti i detenuti di Auschwitz, verso le baracche dei detenuti. Un’imm agine dolce, che cozza con la follia, la schizzofrenia e la scientificità con cui i campi di sterminio furono progettati e realizzati. Un corto circuito dell’umanità, un’infernale catena di montaggio.

Birkenau era infatti un campo dove il terreno era talmente acquitrinoso che a volte qualche detenuto, prima della bonifica., è morto annegato nel fango. Era il campo delle celebre porta della morte, sotto il cui arco dal 1944 passavano i treni che portavano direttamente ai forni crematori e alla camere a gas nascosti in un bosco di betulle. Era il campo del dottor Mengele, l’angelo della morte, delle sorelle Bucci sopravvissute e tra i testimoni anche di questa edizione del viaggio della memoria toscana. Era il campo di Luigi Ferri, un bambino di 12 anni, sopravvissuto anche lui, che sembra aver ispirato “La vita è bella” di Benigni. Ma era anche il campo di tanti altri che sono morti.