Firenze, 21 aprile 2010 - «E’ TUTTA colpa mia, è colpa della mia presunzione». Era il maggio 2008 e Dario Palomba piangeva lacrime amare fuori dalla porta del pronto soccorso del Meyer, dove sua figlia Clara arrivò in coma diabetico per la deliberata sospensione dell’insulina. «Salvatela, salvatela un’altra volta» ripeteva avendo pensato erroneamente, lo disse lui stesso ai medici, «di avere più tempo». Ma Dario Palomba è lo stesso padre che spinse la figlia sedicenne a sospendere l’insulina su consiglio di una santona statunitense che si spacciava per dottoressa, la deceduta Marjorie Randolph; lo stesso padre che, mentre la ragazzina stava scivolando nel coma diabetico, accolse come oro colato suggerimenti del tipo «va benissimo, l’organismo sta rispondendo», «Clara espelle veleni» o «cosa può fare di più il 118 di quello che stiamo facendo noi?». Lui, semplicemente e tragicamente, poteva salvarla da una morte dolorosa e orribile per i suoi sedici anni.

ED È PER questo motivo che Dario ed Elisabetta Palomba, i genitori difesi dagli avvocati Neri Pinucci e Sigfrido Fenyes, sono sotto processo davanti alla corte d’assise per l’omicidio volontario della propria figlia, per la quale, anche se deceduta, il gip Barillaro nominò curatore speciale l’avvocato Marino Bianco, oggi parte civile con l’avvocato Maria Letizia Nasoni.
 

Il pubblico ministero Alessandro Crini avanza l’imputazione di omicidio volontario sotto il profilo del cosidetto «dolo eventuale». Cosa significa questo? Che i due sarebbero stati consapevoli dei rischi che avrebbe comportato sospendere l’insulina, ma avrebbero consapevolmente accettato il rischio delle conseguenze. Clara, in base alle perizie, poteva essere salvata se i genitori l’avessero tolta dalle mani della santona capace solo di prescriverle cocktail a base di vitamine C ed E al posto dell’insulina perché, diceva lei, «il diabete non esiste, ma è un invenzione dei medici». L’udienza di ieri all’aula bunker ha rappresentato uno snodo significativo del processo. Chiamata dal pm Crini, è infatti salita sul banco dei testimoni la dottoressaSonia Toni, responsabile del centro regionale di diabetologia pediatrica del Meyer. E’ la massima autorità toscana sul diabete nei bambini e il caso ha voluto che sia stata lei nel luglio 2007, quando fu fatta la prima diagnosi di diabete per Clara, a seguire clinicamente la ragazzina. «Clara — ha raccontato la dottoressa Toni alla corte d’assise — arrivò accompagnata dai genitori con la sintomatologia classica del diabete: faceva spesso pipì, beveva tantissimo e presentava un dimagrimento molto importante». In più, a dimostrazione della gravità con la quale si presentò in ospedale, la dottoressa ha sottolineato che «Clara presentava delle ulcere alle gambe che mai avevamo visto fino ad allora nei ragazzi, era la prima a quei livelli, tant’è che i colleghi che si occupano delle ustioni, ai quali la facemmo vedere, ci suggerirono di farle trattamenti in camera iperbarica per facilitare la ricrescita del tessuto, una cosa al di fuori dell’esperienza diabetologica pediatrica. Quelle ulcere erano l’espressione del ritardo con cui era venuta da noi».
 

Clara, infatti, stava male da mesi, dall’inizio dell’anno scolastico precedente, ma un medico omeopata di Modena — che era diventato il dottore di fiducia della famiglia e che l’ebbe inizialmente in cura — interpretò quei sintomi come un banale disagio psicosomatico. Per questo motivo, ha sottolineato ancora la dottoressa in aula, «richiamammo subito i genitori alla peculiarità del diabete e a seguire la medicina tradizionale; fu premesso che non avrebbero mai dovuto sospendere l’insulina, cosa che avrebbe anche potuto portare alla morte, e che non dovevano rivolgersi a cure alternative. O, se l’avessero fatto, ce lo dovevano dire subito». Sembravano aver compreso che l’omeopatia, stavolta, non li avrebbe aiutati: «Mi dissero: ‘la lezione ci è servita, abbiamo capito’». Ma non era vero.

CLARA inizia così la terapia insulinica. Con un grosso peso nel cuore, come sottolineato ieri in aula anche dalla dottoressa Simona Caprilli, la psicologa che l’aveva in cura: per colpa di quelle brutte cicatrici alle gambe, parole della ragazzina, «non posso mettermi la gonna». L’insulina, però, funziona: Clara migliora nei mesi, ingrassa un po’, torna a uscire, va in palestra con un’amica (quella stessa amica che ancora oggi si sente disperatamente in colpa per non essere riuscita a salvarla) ma è comunque una scocciatura farsi tutte quelle punture ogni giorno, soprattutto con un padre «fissato, preciso, ossessivo» che la controlla accuratamente proprio quando lei cerca più autonomia. Il 24 aprile, alla visita di controllo, ci sono però problemi (si scoprirà poi che erano già state acquistate le vitamine miracolose della Randolph, era tutto un pretesto): «La collega che la stava visitando — ha detto la dottoressa Toni — mi chiamò perché il padre l’aveva messa in discussione ed era un po’ aggressivo. Continuava a chiedere delle ulcere, ma quelle non c’erano più. La mamma taceva, Clara piangeva. La rassicurai e fissammo un nuovo incontro per l’8 maggio, stavolta a scadenza ridotta proprio per vedere come andavano le cose». A quell’incontro Clara non si presentò e il padre, il giorno dopo, telefonò al Meyer assicurando che avrebbe fissato un nuovo appuntamento di controllo. Che non ci fu mai. In realtà aveva voluto deliberatamente evitare la visita «perché — parole dello stesso padre alla dottoressa Toni — sennò vi sareste accorti che aveva sospeso l’insulina». Allo stesso modo il padre cancella l’incontro programmato con la psicologa: «Mi disse che nicchiava, non voleva più venire. Eppure stava sempre meglio».

QUANDO Clara riappare al Meyer è già troppo tardi: «Arrivò in condizioni disperate — si è commossa la dottoressa Toni — e i genitori ci fecero quel racconto per me allucinante su quella Randolph. Ci dissero che lei aveva spiegato che Clara poteva guarire e fare la cura di vitamine anche senza insulina, Clara all’inizio non voleva, disse ai genitori: ‘Ma non ricordate come sono arrivata in ospedale?’. Poi disse di sì per potestà genitoriale. Mi dissero: ‘Clara era una bambina, fece quel che volevamo noi e accettò’».
 

I genitori la videro scivolare nel coma, vicino a lei, accanto al suo letto, col respiro sempre più affannoso. «La mamma mi disse che a un certo punto aveva in una mano la siringa dell’insulina e nell’altra il telefono dal quale la Randolph le diceva che non doveva fargliela». Infatti non la fece. E come disse la nonna della piccola alla dottoressa Toni fuori dal pronto soccorso: «Quella donna li ha imbambolati». Tanto da suggerire alla madre, preoccupata perché la figlia non si riprendeva, di assumere qualche tranquillante per l’ansia.
Ma nessuno, in quella casa, ebbe la forza di farle una banale iniezione di insulina che avrebbe salvato la vita alla povera Clara. Alla povera, piccola Clara. Morta a 16 anni a seguito delle ingiustificabili e inspiegabili azioni di coloro che, per primi, avrebbero dovuto proteggerla e che, invece, hanno buttato la sua vita in pasto a una santona pazza. Il processo continua oggi.