Un testimone racconta la tragedia dell'Heysel 30 anni dopo

Gianni Carpitelli sfuggì per caso alla morte nello stadio della finale di Champions fra Juventus e Liverpool

Gianni Carpitelli mostra la copia della Nazione di 30 anni fa

Gianni Carpitelli mostra la copia della Nazione di 30 anni fa

Castelfiorentino, 29 maggio 2015 - Un viaggio all’inferno, andata e ritorno. Sono passati trenta anni e l’Heysel è ancora un incubo che tormenta i sonni di Gianni Carpitelli, oggi 48enne, padre di due figli, che nonostante tutto continua ad amare il calcio e la sua Signora. Il 29 maggio 1985 anche lui era nella Z, la curva dove morirono 39 persone poco prima della finale di Coppa dei Campioni tra Juventus e Liverpool. «Avevo 17 anni – ricorda Gianni – e con mio fratello Enrico, di due anni più grande, avevamo trovato all’ultimo minuto i biglietti per la finale. Quando arrivammo all’ingresso dello stadio ci trovammo di fronte migliaia di inglesi già ubriachi. Prendemmo posto sulle gradinate che già si spezzavano sotto il nostro peso. Tirammo fuori sciarpe e bandiere e cominciammo a sventolarle. All’improvviso cominciò a piovere di tutto: pezzi di gradinate, bottiglie rotte. I tifosi inglesi avanzavano verso il nostro settore, spingevano sulla rete, finché non cedette». Era la fine della festa e l’inizio della tragedia. I tifosi si ritrovarono ammassati al muro, che ad un certo punto crollò. Moltissime persone rimasero schiacciate, calpestate dalla folla e uccise nella corsa verso una via d’uscita. «Io – continua Gianni – fui sollevato dalla massa di persone. Andavo dove la folla mi portava. Fui tra i pochi che si trovarono incanalati verso il basso e passando dalla porticina d’ingresso della pista d’atletica, che la polizia cercava di chiudere, mi ritrovai in campo. Spaesato e senza più Enrico al mio fianco, mi diressi sotto la curva degli juventini e cominciai a chiedere aiuto. Un poliziotto mi afferrò e mi trascinò fuori dallo stadio, mi ammanettò e mi buttò su una camionetta insieme a due inglesi. Trascorsi sette ore in prigione, ignaro dello sviluppo della situazione. Non avevo documenti con me, li aveva Enrico, che non aveva la minima idea di dove fossi finito. Rimasi in cella fino al processo verbale a cui fui sottoposto alle 2. In qualche modo spiegai chi ero e le mie intenzioni. Mi rilasciarono».

«Mi ritrovai per strada a Bruxelles nel cuore della notte, senza un soldo né documenti. Un taxista mi indicò la strada per la stazione. All’ingresso mi trovai di fronte un tappeto di almeno 500 inglesi che bivaccavano e dormivano. Feci due passi indietro per buttare via le sciarpe della mia squadra. Sentii parlare italiano e chiesi aiuto».

«Un giornalista de La Stampa e un ragazzo siciliano mi rifocillarono e informarono di ciò che era accaduto. Mi pagarono il biglietto fino al Lussemburgo da dove in mattinata riuscii a mettermi in contatto con la mia famiglia». «I miei erano già all’aeroporto di Pisa per prendere il primo aereo convinti, ormai, di riportarmi a casa morto. Le loro speranze si erano ridotte al lumicino, perché nel frattempo mio fratello, dall’ambasciata italiana, era riuscito a contattarli e dire loro che non sapeva dove fossi finito. Prima di lasciare lo stadio, Enrico era venuto anche a cercarmi tra i morti. I miei furono avvertiti che ero vivo prima di partire per il Belgio. Da quel tragico mercoledì riuscii a tornato a casa in treno il venerdì mattina. Enrico arrivò il giorno prima in aereo, convinto di avermi perso per sempre. Lo riabbracciai all’alba di due giorni dopo a Castelfiorentino».

A quella tragica esperienza i fratelli Carpitelli hanno reagito in modo diverso. Gianni ha continuato a farsi migliaia di chilometri per assistere a tutte le finali della sua Juve; Enrico, invece, non riesce più ad affrontare code di alcun tipo. Gianni il prossimo 6 giugno a Berlino per la finale di Champions contro il Barcellona non ci sarà, ma solo perché non è riuscito a trovare i biglietti. «La guarderò in tv – dice – Come ogni finale l’aspetto con gioia e trepidazione, ma con il pensiero rivolto a quelle 39 vittime e alle loro famiglie».