«Cuba, tra rimpianto e disinganno». Fidel nei ricordi di Graziano Cioni

«Durante una visita nell’isola vidi un miscuglio tra povertà e dignità»

Fidel Castro con Che Guevara

Fidel Castro con Che Guevara

Empoli, 4 dicembre 2016 - Oggi il funerale itinerante di Fidel Castro lungo le tappe della rivoluzione dei ‘barbudos’ arriva alla tappa finale, ma intanto da noi c’è chi ricorda, tra rimpianto e disincanto, un mito, quello castrista, che è ormai giunto al capolinea in tutti i sensi. D’accordo, all’Avana al potere c’è ancora uno della famiglia, il fratello minore di Fidel, Raul Castro, ma il fascino di un tempo si è squagliato con i problemi di tutti i giorni, soprattutto economici, di un Paese che ha dovuto fare i conti con decenni di blocco navale, il bloqueo, come lo chiamano da quelle parti, decretato dagli Stati Uniti nei confronti della nazione che aveva portato gli ideali marxisti a un tiro di schioppo da Miami. Per il Pci di un tempo, invece, i castristi erano un esempio importante, e Cuba un faro a cui guardare, considerando anche il mito di Ernesto ‘Che’ Guevara, ucciso nel 1967 durante l’esportazione della rivoluzione in Bolivia, quando il suo mito era al massimo del fulgore.

Un testimone di quell’epoca è Graziano Cioni, dirigente del Pci empolese e poi parlamentare dei partiti di sinista subentrati e amministratore di rango di Firenze. Cioni non ha mai avuto una valutazione acritica del ‘fenomeno’ Cuba, ma i ricordi in materia non gli mancano. «Verso la fine degli anni ’60, e anche dopo – ricorda Cioni –, era di moda avere Cuba come faro. Allora i compagni europei andavano a fare la zafra, la campagna del taglio della canna da zucchero, una delle risorse di Cuba, per aiutare la rivoluzione. Ricordo che da Firenze partì anche Raoul Bellucci (noto come Bambino), giocatore del calcio storico fiorentino e punta di lancia del servizio d’ordine del Pci. Lui tagliava canna da zucchero tanto quattro cubani e per questo, durante una manifestazione, fu chiamato sul palco dal lider maximo, da Fidel. Anch’io sono andato a Cuba, ma da privato cittadino perché volevo vedere come stavano realmente le cose. Vidi un miscuglio tra povertà indotta dall’embargo Usa e dignità di un popolo, fatta anche di conquiste in tema di istruzione e di sanità. I problemi di democrazia con gli oppositori, che condanno, si sarebbero conosciuti dopo. Per qualcuno Cuba era una terra gestita da una dittatura, per altri era l’isola della libertà.

Castro aveva l’appoggio dell’Urss ma era un patriota rivoluzionario, non un comunista. Lo era molto di più il Che, che se ne andò dai vertici del potere per ‘esportare’ la rivoluzione perché il governo dell’Avana non gli piaceva fino in fondo. Da noi, per i giovani della sinistra, il fascino rivoluzionario aveva i nomi, appunto, di Guevara e di Ho Chi Minh, il leader del Vietnam del Nord che lottava contro l’esercito statunitense e quello del Vietnam del Sud. Dal punto di vista personale, per dare l’idea di quei tempi, ricordo che il pittore Nico Paladini per un compleanno mi regalò un dipinto ‘centrato’ sul Che».