Giovedì 25 Aprile 2024

"Così i miei clic hanno ucciso 1600 persone". Gli incubi del pilota di droni Usa

Il racconto di Brandon Bryant: "Mi dicevano: quelli sono i cattivi. E io dal Nevada aprivo il fuoco"

Il pilota Brandon-Bryant

Il pilota Brandon-Bryant

Bologna, 25 aprile 2015 - "La morte di Giovanni Lo Porto e Warren Weinstein non mi stupisce. Colpire bersagli sbagliati con i droni è più facile di quanto si possa immaginare». Nessuno meglio di Brandon Bryant conosce il peso che si prova ad ammazzare una persona con un clic. L’ex aviere americano ha lavorato quattro anni e mezzo nel programma top secret dell’esercito Usa per il bombardamento con velivoli senza pilota in Afghanistan e Iraq. «Mi hanno detto – racconta – che ho contribuito a uccidere 1626 persone».

Cosa si prova a togliere la vita a qualcuno guardando uno schermo, seduti a migliaia di chilometri di di distanza dall’obiettivo?

"Gli esseri umani attraverso le telecamere di un drone sembrano delle ombre. Noi uccidevamo quelle ombre. Mi dicevano: ‘Quelli sono i cattivi’. E io semplicemente sparavo".

Che ricordi ha della sua prima missione?

"Era il 2007, avevo da poco compiuto 21 anni. Ero responsabile della telecamera installata nel drone: il pilota, infatti, non può sparare i missili se l’altro operatore non punta il laser. L’intelligence aveva identificato tre terroristi che stavano trasportando delle armi in Afghanistan. Non sapevamo nulla di loro. Una volta agganciato il bersaglio, abbiamo dato l’ordine al drone, dalla nostra sala operativa in Nevada, di sparare un missile. Quei secondi sono durati un’eternità. Poi lo schermo a infrarossi è diventato improvvisamente bianco. Quando il fumo si è dissipato, due miliziani erano morti. Il terzo aveva perso una gamba e rantolava per il dolore. C’era sangue ovunque. Ho capito che era finita solo quando il suo corpo è diventato dello stesso colore bluastro del terreno. Sono cose che non si possono scordare".

Cosa è successo dopo?

"Abbiamo festeggiato. Quando ho chiesto di poter parlare di quello che era appena successo, mi hanno detto: ‘Pensa a fare il tuo lavoro. Nessuno vuole sentire le tue stronzate’. L’addestramento, per molti versi assai datato, non ci aveva psicologicamente preparato alla realtà".

Solitamente sapevate l’identità dei vostri bersagli?

"No, la maggior parte delle volte non conoscevamo chi stavamo per uccidere".

Prima di colpire un obiettivo di alto profilo dovevate seguirlo per settimane. Cosa si prova a entrare nella vita degli altri?

"Mi sentivo un voyeur. Guardavo i miei bersagli bere il tè con gli amici, giocare con i loro figli o fare sesso con le loro mogli sui tetti. C’è un brivido perverso nel sapere di poter spiare qualcuno, sapendo che non verrai mai pizzicato".

Uccidere una persona con un drone assomiglia davvero a un videogame?

"Le abilità richieste effettivamente sono simili, ma per il resto è tutto molto diverso. Togliere la vita a qualcuno non è un gioco".

Che effetti ha avuto questo lavoro sulla sua vita?

"Inizialmente ero eccitato, pensavo di fare la cosa giusta. Poi ho iniziato a farmi sempre più domande: ho smesso di dormire, ero insensibile. A un certo punto sognavo a infrarossi. Avevo oltrepassato il limite".

Cosa ne pensa della morte di Lo Porto e Weinstein?

"Colpire un bersaglio sbagliato con i droni è più facile di quanto si possa immaginare. La tecnologia in sé è fantastica, ma il modo in cui viene utilizzata è orribile: per il governo è la scusa più semplice per uccidere i terroristi invece che catturarli. Il modo in cui vengono impiegati i velivoli senza pilota è sempre stato poco trasparente".

Perché ha lasciato l’esercito?

"Lo stress mi aveva devastato e non riuscivo più a sopportare le bugie dei politici e dei miei colleghi. Ora con il progetto Red Hand cerco di far conoscere a più persone possibili la verità su questo e altri temi che reputo importanti per la vita delle persone".

C’è una missione per cui prova particolare rimorso?

"Tutte quante".