Angoulême, 23 gennaio 2014 - A CINQUANT’ANNI dalla nascita e a quarantuno dalla fine delle sue avventure non si scalfisce il fascino, la carica eversiva e la modernità di Mafalda, la bambina capellona e contestatrice, che odia la minestra e parla di politica e rivoluzione.

Mafalda è nata dalla fantasia di Joaquin Salvador Lavado, in arte Quino, 82enne che vive a Buenos Aires dopo aver passato lunghi periodi in Europa, tra Parigi e Milano. All’autore argentino e alla sua creatura (ma è giusto ricordare che dopo Mafalda Quino ha realizzato per anni vignette umoristiche con altri soggetti) viene dedicata una mostra al Festival de la Bande Dessinée di Angoulême, in Francia, la spettacolare manifestazione internazionale di fumetti in programma dal 30 gennaio al 2 febbraio.
Un omaggio a una “bambina di 50 anni”, curato da Ivan Giovannucci, a riprova della dimensione mondiale e duratura delle avventure di Mafalda, sebbene Quino abbia smesso di disegnarla nel 1973.

Quino, Mafalda è figlia di un determinato periodo storico. Eppure, è ancora popolarissima. Come lo spiega?
«Non avrei mai potuto immaginare che, nonostante abbia smesso di disegnarla da così tanto tempo, Mafalda potesse avere ancora tutto questo successo, essere così attuale. Allo stesso tempo è tanto triste vedere come tutto sia rimasto uguale. Anzi, se qualcosa è cambiato, è in peggio purtroppo»
Ci racconti com’è nata Mafalda.
«E’ una storia curiosa. Un mio amico, Miguel Brascó (disegnatore umoristico, scrittore e giornalista argentino, ndr) viene contattatato da un’agenzia di pubblicità e gli chiedono un disegnatore in grado di creare una striscia comica da inserire come pubblicità occulta in un quotidiano, per la promozione di una linea di elettrodomestici e che sarebbe uscita sul mercato con il nome di Mansfield. Brascó mi contatta e mi suggerisce di immaginare un fumetto in cui si combinassero i Peanuts con Blondie e Dagoberto. Mi sono immaginato una famiglia del ceto medio argentino e, rispettando un’esigenza espressa dall’agenzia, per la bambina protagonista del fumetto cercai un nome che iniziasse con la “M” (come gli elettrodomestici). Mi ricordai che in un romanzo di David Viñas, “Dar la cara”, c’era una bambina di nome Mafalda. Mi era sembrato un nome simpatico e allegro. La pubblicità non si fece. Le strisce rimasero in un cassetto finché nel 1964 sempre Brascó decise di pubblicarle su un quotidiano».
Mafalda è considerata un personaggio “politico”. Cosa voleva esprimere attraverso le sue storie?.
«Mafalda è figlia del mio ambiente familiare. E in particolare di mia nonna comunista, che mi strapazzava perché amavo il cinema musicale americano (Bing Crosby, Sinatra). La nonna mi cancellava le illusioni, ricordandomi che in Spagna c’era Franco, in Portogallo Salazar, per non parlare dei regimi militari dell’America Latina. Eppure ci fu un momento nei tardi anni Sessanta, in cui pareva che tutto potesse cambiare in meglio. La musica dei Beatles era l’emblema di quella speranza e io risentivo di quell’ottimismo: gli stessi furori di Mafalda erano voglia di cambiamento. Ora abbiamo un padrone e penso che i giovani non ci stiano: dovremmo forse rimproverarli perché, a differenza degli adulti, non vogliono impadronirsi del petrolio del mondo?»
Perché ha smesso di disegnarla nel 1973?
«Dopo dieci anni mi costava tantissimo lo sforzo di non ripetermi e soffrivo molto l’angoscia della consegna giornaliera».
Lei ha vissuto a Milano, che idea si è fatta del nostro paese?
«Faccio mia la frase del vostro regista Sorrentino alla premiazione per i Golden Globes: l’Italia è un Paese pazzo, ma bellissimo».

Roberto Davide Papini