Firenze, 17 aprile 2012 - Il mondo cambia, mi faceva osservare poco fa una cara collega. E con il mondo cambiano le lingue, i costumi, i gusti.

A PASQUA IO MANGIO L'AGNELLO

Un mondo che si evolve, è la tesi, non può più tollerare lo scempio dei cuccioli di ovino, insomma gli agnelli, mandati al macello in nome di un rito brutale, ancorché — e forse proprio per quello ancora più cruento e inaccettabile — antichissimo, come quello dell’abbacchio arrosto per Pasqua. Brutale perfino nel nome: abbacchio pare derivare probabilmente dal latino ad baculum, per fotografare la triste scena della bestiola legata a un paletto a ingozzarsi in vista di finire sulle braci.

Il mio amico Tebaldo Lorini l’aveva inserito, l’agnello, nel suo libro Ricette proibite, che ha sollevato orrori e raccapricci nelle compagini animaliste. Ma altra cosa è pensare al gatto cucinato in forno, o al tenero porcospino, altra cosa l’agnello. Ebbene sì: non me ne voglia la crescente schiera degli inteneriti — quanti se ne contano in particolare tra le giovani generazioni, così ben espressi dalle lacrime globalizzate di Lisa Simpson nel cartoon più visto del mondo... — capitanata alle nostre latitudini da un uomo di grande ingegno e animo profondo come il professor Umberto Veronesi. Rispetto l’opinione contraria, ma a Pasqua mangio l’agnello. Sono figlio di una tradizione che viene da lontano, che è antropocentrica, nella quale gli animali da cortile non nascono per morire di vecchiaia: se vengono allevati, è per finire nel piatto. Non solo: ma la “guerra dell’agnello” è discriminatoria nei confronti della vitella e del manzo, del maiale e del coniglio, del cinghiale e della gallina. E, scusatemi, non riesco allora a immaginare un mondo pieno di carcasse di animali da sotterrare o bruciare su immense pire dopo l’ultimo fiato.
Lo consiglio anche, l’agnello: costolette, lombate, cosci. Quale agnello scegliere? Quello di Zeri, carne piena e profumata: lassù, in Lunigiana, per quelle coraggiose ragazze, le “signore degli agnelli”, è fonte di vita. Vogliamo portargliela via, in questi tempi e in quei monti così difficili?

AL RISTORANTE VOGLIO L’OLIO CON IL NOME

C’era una volta una legge. Che, pensate un po’, era stata partorita nel 2001, e doveva entrare in vigore nel 2006. Segnava una svolta di civiltà nei ristoranti: mai più l’ampolla dell’olio senza etichetta in tavola. Con rabbocchi, controrabbocchi, aggiunte di chissà cosa: se pago ho diritto a sapere cosa mangio, e con cosa condisco. I produttori, soprattutto i più avveduti, di sicuro quelli che producevano gli extravergine migliori, si attrezzarono subito: boccettine o mini-lattine da 100, perfino da 50 cc. Monouso, o quasi. Eppure le ampolle anonime da tanti (troppi) ristoranti non sono scomparse. Anzi. E mentre c’è chi allestisce addirittura una carta degli oli (ma ormai nei locali migliori si trovano anche le carte delle acque, dei caffè e delle tisane, dei distillati...), i soliti furbi vanno a diritto, e della legge se ne infischiano. Pare che fossero previste sanzioni fino a 3mila euro; pare anche, però, che in una strana guerra tra ministeri lo Sviluppo Economico sia riuscito a invalidare il lavoro delle Politiche Agricole, e che quindi il divieto di ampolla sia scomparso. Pare. Siamo nel solito ambito, tutto italiano, delle illazioni.Tutte da chiarire.

Per quello che mi riguarda, continuerò a combattere la guerra contro l’ampolla anonima. E anche la guerra contro il prezzo del “pane e coperto”, se non addirittura del “servizio”: sono gadget che fanno solo crescere il conto, ingiustificati soprattutto dove si serve su tovaglie e con tovaglioli di carta. E, orsù, battiamoci anche contro il vizio di portare in tavola bottiglie già stappate, di acqua (a meno che non sia naturizzata) o peggio ancora di vino: sono pochi, ma c’è ancora chi lo fa. Applausi a chi serve sempre più vini al calice (ma a volte i prezzi mettono i brividi...), e ancor più a chi permette il diritto di tappo: porto il vino da casa, ti pago un “diritto” per compensare servizio, stappatura, lavaggio del bicchiere, eventuale decanter. E se apro una bottiglia e non la finisco, voglio portarmela via. Come la doggy bag per la bistecca. Non l’ho finita, ma l’ho pagata. E cara, magari.
 

PAOLO PELLEGRINI