"Regalo un palasport. E’ inutile essere il più ricco del cimitero"

Wanny Di Filippo, meglio noto come Il Bisonte, all’indomani della presentazione ufficiale della nuova palestra per Firenze col sindaco Nardella, racconta un po’ di sè

Wanny Di Filippo

Wanny Di Filippo

Firenze, 10 dicembre 2016 - «HO ricevuto oltre ventimila tra messaggi e telefonate di plauso da tutta Italia. Tutti a condividere questa mia idea di un palazzetto dello sport per Firenze. Mi hanno chiamato società e dirigenti, e raccontato di altri casi come il mio alla ricerca della palestra perduta: è bellissima tanta solidarietà». Wanny Di Filippo meglio noto come Il Bisonte per l’azienda di pelle famosa nel mondo e per la squadra di pallavolo, all’indomani della presentazione ufficiale della nuova palestra per Firenze col sindaco Nardella, racconta un po’ di sè.

Di Filippo, questa è diventata la sua città.

«In effetti sì, perchè sono veneto, nato ad Adria provincia di Rovigo sotto l’argine del Po. Dopo vari cambiamenti in giro per l’Italia perchè mio padre era maresciallo dei Carabinieri da oltre quarant’anni sono qui».

Si sente un benefattore?

«No, per niente. Ma ci si nasce con la vocazione verso gli altri, si sa che non serve accumulare. E che è inutile essere il più ricco del cimitero. Di tutto si può fare a meno: io me ne frego di macchine, gioielli, barche, case. Poi c’entra l’aver smesso di studiare a 16 anni e a 18 iniziare a fare il rappresentante in giro per l’Italia. Ho imparato da solo e col mio metodo a fare collanine, borse, sandali e braccialetti».

La sua fortuna?

«E’ stata arrangiarmi con un mestiere che non sapevo fare, perchè se qualcuno che me l’avesse insegnato avrei saputo fare solo quello che imparavo».

E invece?

«Invece, essendo un hippy e avendo cominciato a lavorare in Sardegna sulle spiaggie è stato meglio».

Andava controcorrente?

«Sì: negli anni ’60 tutti facevano borse con specchietto e cerniere. Io prendevo pelli di capra e le accoppiavo, prendevo la stoffa delle sdraio e la cucivo: l’importante era che non cascasse di sotto la roba».

La sua fortuna?

«Essere piaciuto ai giapponesi che amano le curiosità delle mie borse: si possono trasformare. Il mio lavoro si è sviluppato partendo da una cantina in piazza Rucellai nel ’69: stavo a levare ancora la terra dell’alluvione. Poi sono passato a Palazzo Corsini, dove ancora sto da 44 anni. E aperto negozi negli States, in Corea, a Giacarta, 37 in Giappone».

La sua ricetta dell’altruismo?

«E’ nata in azienda: ho avuto un sacco di problemi di salute, mia moglie da trent’anni è ricoverata. Mi sono affidato ai miei collaboratori e sono arrivato ad avere 70 dipendenti. Ho sempre avuto grande fiducia in loro, a fine anno ho condiviso anche gli utili dell’azienda. Ma non c’è una ricetta».

Conta essere stati male per capire di più la vita?

«Dopo mia moglie, cinque infarti, un grave incidente d’auto sono ancora vivo: si vede che qualcosa devo ancora fare. Cerco di dare una mano a chi ha bisogno, ai giovani, allo sport all’arte. E dico grazie alla città».