Firenze, 24 giugno 2013 - Oggi omelia in cattedrale dal Cardinal Giuseppe Betori in occasione  della festività di San Giovanni Battista.


Durante la Messa sono stati ricordati anche i dieci anni di episcopato del Vescovo ausiliare Claudio Maniago, che ricevette l’ordinazione l’8 settembre del 2003. L'arcivescovo, come ogni anno, ha poi salutato i sacerdoti diocesani e i religiosi che celebrano quest’anno il proprio «giubileo» sacerdotale.

 

Festeggiano 25 anni di sacerdozio don Leonardo Altobelli , don Emanuele Dondoli , don Alfredo Jacopozzi, can. Giancarlo Lanforti, don Carlo Maurizi, don Paolo Milloschi, don Alejandro Gallardo Vila e, tra i religiosi, padre Valerio Mauro, Cappuccino.

 

Sono cinquant’anni di sacerdozio invece per don Mario Landi e per i religiosi padre Oneglio Bacci (Cappuccino), don Angelo Costa (Dehoniano), padre Alfonso Fressola (Domenicano), padre Carmine Pace (Missionari del Sacro Cuore). Hanno raggiunto il traguardo ragguardevole dei sessanta anni di sacerdozio cinque preti diocesani: don Remo Collini, don Vittorio Di Cesare, don Umberto Di Tante, don Brunero Pretelli, mons. Paolo Ristori. Altri quattro invece festeggiano ben 65 anni di sacerdozio: can. Averardo Dini, mons. Elio Pierattoni, don Silvano Puccini, mons. Mino Tagliaferri.

 

 

LE PAROLE DEL CARDINALE GIUSEPPE BETORI

Questa celebrazione vede l’intera città attorno al suo Patrono. Ringrazio tutti voi che siete venuti a questo momento in cui ne facciamo memoria rendendo lode a Dio. Sono particolarmente grato alle autorità, civili e militari, qui presenti. Gratitudine esprimo pure verso i rappresentanti delle altre Chiese cristiane venute a condividere la nostra gioia.

La Chiesa di Firenze in questo giorno di festa è solita riunire attorno all’altare anche i sacerdoti che compiono nell’anno i loro giubilei. I loro nomi sono risuonati poco fa in questa aula liturgica. Li accomuniamo tutti nella gratitudine al Signore per quanto egli ha fatto mediante loro, e siamo grati a loro per essersi fatti strumenti della grazia del Signore tra noi. A tutti va la gratitudine dell’Arcidiocesi per l’impegno con cui svolgono il loro ministero, spesso in condizioni difficili, con un carico pastorale sempre più pesante a causa del calo numerico del presbiterio. Li ringraziamo soprattutto perché grazie a loro la nostra Chiesa continua a stare in mezzo alla gente, come testimone del Vangelo per tutti. Alla gratitudine si unisce l’esortazione rivolta a tutti a pregare per le vocazioni sacerdotali, perché i nostri giovani non temano di accogliere la chiamata del Signore a servirlo.

Infine, all’inizio di questa celebrazione non posso non dire il mio grazie al Maggio Musicale Fiorentino, al suo Commissario, al Direttore e ai Professori dell’Orchestra insieme ai componenti del Coro e al loro Maestro. In omaggio al nostro Patrono eseguiranno in questa liturgia una messa di Schubert e altri pezzi di musica sacra di Mozart. È musica che torna alle finalità per cui è stata composta e evidenzia la naturale connessione tra fede e arte, secondo la migliore tradizione fiorentina. Con questa presenza si ribadisce anche che San Giovanni Battista appartiene a tutta la città ed è elemento costitutivo dell’identità fiorentina.

 

 

IL TESTO INTEGRALE DELL'OMELIA DEL CARDINALE BETORI

C’è qualcosa di non casuale nel fatto che la nostra città celebri il suo patrono nel giorno della sua nascita e non in quello del suo martirio. C’è un messaggio in questa solennità, strettamente legato al tema della vita colta al momento del suo dischiudersi, con la carica di futuro e di speranza che porta con sé, ma anche con la responsabilità di una missione da attuare, di un disegno da compiere. «Il Signore dal seno materno mi ha chiamato, fino dal grembo di mia madre ha pronunciato il mio nome» (Is 49,1): le parole di Isaia calano sul Battista e ne tracciano il profilo di profeta a cui Dio ha affidato di preparare l’evento centrale della salvezza, la venuta nella carne del Figlio stesso di Dio. E continua: «Mio servo tu sei, Israele, sul quale manifesterò la mia gloria» (Is 49,3).

La coscienza della missione, il farsi carico di una responsabilità verso la storia, verso l’umanità, completa l’immagine che Isaia ci offre del Servo e che la liturgia della Chiesa vede riflessa sul volto di Giovanni. Non c’è solo un futuro di cui mettersi al servizio, ma anche un ministero di edificazione e di riconciliazione, che come luce risplende nel mondo: «È troppo poco che tu sia mio servo per restaurare le tribù di Giacobbe e ricondurre i superstiti d’Israele. Io ti renderò luce delle nazioni, perché porti la mia salvezza fino all’estremità della terra» (Is 49,6). Lo scenario planetario in cui si colloca la missione del Battista non può non suonare come un richiamo esigente per la vocazione di questa città, che in lui riconosce il proprio patrono e quindi la propria identità, fino ad effigiarlo in quello che fu lo strumento della sua affermazione nelle cose del mondo.

La festa di oggi, dunque, ha per noi anzitutto questo significato di speranza e di chiamata alla responsabilità circa il posto che spetta a Firenze nel farsi testimone di ricostruzione dell’umano e di ritessitura delle relazioni nel mondo, da sempre sua vocazione esigente e misura alta del proprio destino, per il quale mai ci si può sentire adeguati. Firenze deve ripensarsi su questi orizzonti universali: si tratta di non limitarsi alla ricerca di questo o quel bene, ma operare per aprire i cuori all’irrompere di un significato pieno di vita, di una salvezza di tutta la persona umana e di tutti gli uomini e le donne del mondo. L’alternativa è restare preda di ben noti vezzi provinciali e di altrettanto ben noti astiosi antagonismi.

Di questo significato pieno e salvezza integrale fa parte ovviamente anche il giusto posto che va riconosciuto a Dio, in cui identificare non il minaccioso concorrente dell’uomo, non una presenza divisiva e di parte, ma un dono fatto alla coscienza di tutti, perché presenza generosa e gratuita d’amore. Un posto da riconoscere anche per la Chiesa, che non vuole rincorrere ingerenze o egemonie, ma solo porsi al servizio.

Ma se questi sono i pensieri che ci suggerisce la nascita del Battista, aprendo allo slancio delle menti e dei cuori, non possiamo però dimenticare che l’esercizio di questa missione è stato per Giovanni un esercizio spesso di denuncia e di contrapposizione rispetto al pensare e all’agire comune. Vi accenna l’apostolo Paolo nel discorso che, nel testo degli Atti, pronuncia nella sinagoga di Antiochia in Pisidia, qualificando la missione di Giovanni come la predicazione di «un battesimo di conversione» (At 13,24), un appello al cambiamento, la denuncia di scelte e comportamento che vanno radicalmente rimossi. Emblematico, in questo, il suo opporsi al potere incarnato in Erode: «Non ti è lecito» (Mc 6,18), gli dirà, riferendosi al suo legame con Erodiade, la moglie del fratello. Con non minore vigore si pone di fronte alle folle, cui si rivolge con l’appellativo «razza di vipere» (Lc 3,7) e che istruisce con insegnamenti decisi, che contrastano il pensare comune: dare a chi non ha, non esigere oltre il dovuto, non maltrattare e non estorcere nulla (cfr. Lc 3,10-14).

Nell’immagine del Battista risplende dunque anche il potere che ha la parola di Dio di illuminare le zone d’ombra della vita e della storia, per farne emergere l’inconsistenza e indirizzarla alla redenzione. Ed è proprio questa invece una delle carenze più evidenti del nostro tempo, cui non sfugge neanche la nostra città: l’incapacità di discernere ciò che va approvato e ciò che va contrastato, ciò che è bene e ciò che è male e, per estensione, ciò che è giusto e ciò che è illecito, ciò che è bello e ciò che è brutto. Perché bene, giustizia e bellezza si tengono insieme, come la storia di Firenze mostra, o cadono insieme. È questa stessa storia che ci illumina sul fatto che quando le risorse economiche presero la strada della pura speculazione, ne venne anche la rovina di chi ne disponeva, mentre quando quelle risorse divennero strumento di fraternità per il soccorso del povero e per l’immagine stessa della città, ovunque sbocciò la bellezza dell’opera degli uomini e la gioia della convivenza.

Di questa cura amorosa dell’unità tra il bene, il giusto e il bello oggi abbiamo estremo bisogno. Non mancano infatti segnali preoccupanti che ci dicono quale scivolamento del vivere civile e del comportamento personale può generarsi tra noi quando istinti e desideri prendono il sopravvento sull’oggettività del bene e del bello. Si aprono spazi di trasgressione, in tutte le forme possibili, che incidono sull’identità stessa della città, la quale non può non salvaguardare i beni di cui è custode per il mondo, ma deve anche continuare a generare bellezza e cultura per tutti. Il rispetto dei nostri luoghi d’arte ne è il presupposto, non per ridurci a un museo, ma per far comprendere a tutti il senso dell’umano e del divino che li ha generati. E un’improvvida voglia di trasgressione passa dalle piazze ai luoghi della cultura, anche qui senza che si notino apprezzabili reazioni, pur con qualche lodevole eccezione.

Di questa cura del bene, del giusto e del bello nessuno ha l’esclusiva, ma tutti si è chiamati a concorrervi, ciascuno secondo il proprio ruolo. Non voglio fare esempi perché non spetta a me l’agire, ma oggi non posso non richiamare il valore e l’efficacia di questo principio del concorrere insieme di fronte alla delicatissima situazione del Maggio Musicale Fiorentino, che non ha voluto però mancare con la propria arte alla festa del patrono della città in questa cattedrale. Mentre ringrazio quanti lo hanno reso possibile, chiamo tutti a un’azione responsabile e concorde nel ricercare le vie migliori per dare futuro a questa espressione di cultura e di bellezza che tutti ci onora. Anch’io sono il Maggio.

Ma lo sguardo non può soffermarsi sulla cultura senza al tempo stesso volgersi alla solidarietà, secondo le migliori tradizioni fiorentine. Ho letto che la nostra città è al quarto posto in Italia per presenza di senza dimora: quasi duemila persone, quindi centinaia e centinaia di famiglie cui è negata la possibilità di un tetto che le accolga. Non ho soluzioni tecniche al riguardo, ma sarebbe grave che si assistesse a questa tragedia senza reagire, nell’indifferenza dei più e lasciando la sola responsabilità alle istituzioni. La Chiesa fa e farà sempre la sua parte. E giungono anche notizie su una allarmante crescita del bisogno alimentare: aumenta la gente che letteralmente ha fame, mentre non si riescono a debellare le gravi forme di spreco che definiscono il nostro stile di vita. Quando poi lo spreco non diventa anche un pernicioso vizio, che apre a ulteriori baratri: come non reagire alla notizia del primato di questa città nel consumo di cocaina e agli avvertimenti circa la diffusione anche tra noi della piaga del gioco d’azzardo?

Un’ultima parola devo ancora dedicarla alle nostre carceri. Anche qui c’è da chiedersi come la terra che si gloria di essere stata la culla di una delle svolte più significative del diritto penale, con la cancellazione per primi della pena di morte, possa tollerare che uomini e donne vivano in condizioni a dir poco disumane.

Fin qui la condivisione della missione di denuncia che la memoria del Battista ci ispira, lasciando a quanti altri hanno a cuore il futuro di Firenze di completare il quadro e di richiamare le coscienze. Ma la denuncia non può essere fine a se stessa se non vuole scadere nel moralismo. C’è bisogno anche di un appello positivo, che lo stesso Battista ci suggerisce nel momento in cui la sua missione viene qualificata da una parte dall’annuncio di uno più grande di lui e dall’altra nel preparare un popolo ben disposto ad accoglierlo. È quanto il Rustici ha immortalato per la porta nord del nostro Battistero.

Di ambedue questi orizzonti abbiamo bisogno. Anzitutto di riconoscere chi può dare sguardo ulteriore e trascendenza alla nostra vita, perché lo accogliamo come la nostra verità, e per noi credenti nel Vangelo questi è il volto umano che Dio ha preso tra noi, il suo Figlio Gesù, che non possiamo stancarci di proclamare come verità dell’uomo. Dall’altra abbiamo bisogno che ogni percorso di riconoscimento della verità sia un percorso fatto insieme, come un popolo, una famiglia, la cui unità scaturisce dal riconoscersi intessuti dallo stesso principio umano, che è la nostra dignità ma anche la nostra missione.

Giuseppe card. Betori