Firenze, 21 febbraio 2013 - di STEFANO BROGIONI
INIZIA e finisce con gli applausi, in un crescendo di emozioni forti. Scende una lacrima, un sorriso la ricaccia indietro, i fumogeni viola ridanno un senso a un cielo di piombo e la voce della curva lo colloca, meglio di qualsiasi epitaffio, in quell’olimpo che è di molti ma non di tutti. «Mario uno di noi, uno di noi». Il Ciuffi è stato l’anello di congiunzione tra il tifoso, quello sanguigno, passionale, ironico e istrionico come era lui, e i beniamini di questo popolo che adesso ha una guida in meno. Lui, soltanto lui, è riuscito a riunire gli uni e gli altri, in una chiesa, la stessa che salutò Gino Bartali, che sembra fatta apposta per dire addio ai Grandi, e comunque a quelli a cui la gente vuole bene.

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Così, per il Ciuffi, si siedono sulla stessa panca Montella e il Masala, Mencucci e il Titti, Viviano e Tendi, Mirella (shop) e Valcareggi, Di Chiara e lo Scaravilli, Rigoletto Fantappiè e Gianfranco Monti, Moreno Roggi e Sergio Forconi, Amerini ed Elvis, Guerini e Macia, Gigi Boni e Narciso Parigi. In fondo, cos’era Mario, se non la concentrazione di tutto questo? Il calcio, lo spettacolo, la comicità, spontanea e mai costruita.
 

E POI C’È LA FEDE, in questo caso s’intende quella viola, che ben s’amalgama con l’altra, rappresentata da don Massimiliano e il suo predecessore, nel ruolo di cappellano della Fiorentina, don Giovanni. Il risultato è una liturgia composta, durante la quale, sull’altalena del passato, del presente e del futuro, salgono a turno i grandi ed eterni amori di Mario. C’è la bandiera della Fiorentina, ci sono i ragazzi della Primavera con la tuta, ci sono le sciarpe al collo e quelle sulla bara. C’è la gente dello stadio, che lo conosce anche senza mai avergli rivolto la parola, c’è chi ha avuto l’onore di vedersi benedire al suo arrivo a Firenze. Era uno dei tanti riti che si era inventato, da custode della fiorentinità quale era.
 

INSIEME al Ciuffi, se ne va anche la sua frusta, simbolo del massimo splendore televisivo-radiofonico di cui aveva goduto, ma anche del suo carattere: mai assuefatto al potere, pronto a nerbare pur di difendere la maglia, la Fiorentina, Firenze. La frusta arriva insieme al feretro, avvolto nel bandierone viola. Puntuale, alle dieci, dopo aver fatto il giro dello stadio e aver incassato il saluto del bar Marisa, l’università del calcio. Il vicesindaco Nardella con la fascia istituzionale al petto, Giani, Guetta (Radio Blu ha trasmesso i funerali in diretta), Tenerani e Vuturo s’alternano nel portare a spalla la bara al centro di San Piero in Palco. Un primo applauso accompagna il suo ingresso. Un altro, ugualmente spontaneo, si solleva quando don Gabbricci depone la sua sciarpa viola, ricordo delle trasferte di gioventù, insieme a quelle donate dagli ultrà.
 

La celebrazione è così un omaggio all’Onnipotente ma anche l’occasione per bramare il terzo scudetto. Un rito sacro e pagano, un inno alla passione che ha segnato, fino a farlo morire povero, l’esistenza di Mario Ciuffi; un tributo al suo modo di essere viola e alla donna, la signora Renza, che gli è stata accanto fino alla fine.
 

PER LEI, parla l’amica Lucia: racconta, prima di una poesia, dell’ultimo venerdì del Ciuffi; di come, consapevole di essere arrivato all’epilogo, abbia insistito affinchè fossero ringraziati «tutti, proprio tutti, ma soprattutto la Fiorentina, la mia famiglia». Montella e Viviano salutano la vedova, ma prima del triplice fischio c’è ancora tempo per emozionarsi. Fuori dalla chiesa, ci sono i tifosi. Così, mentre la bara s’incammina verso il cimitero del Pino e si canta l’inno, il viola si respira nell’aria e si srotola un altro striscione. «Ciao Mario... Che questi colori ti accompagnino in cielo».