Firenze, 24 giugno 2012 - Una volta era tutto più semplice. Per capire il mondo bastava conoscere la geografia. Est contro Ovest, comunisti contro capitalisti. Nord contro Sud, ricchi contro poveri. Adesso, tramontate le ideologie, è meglio mettere da parte i manuali di filosofia e i mappamondi, e dare un’occhiata solo ai libri contabili. Quelli della Cina, ad esempio, scoppiano di voci attive. Quello del Dalai Lama, invece, è molto ricco, ma solo di nobile spiritualità.

Risultato. Siccome con la Cina facciamo affari e ancora di più ne vogliamo fare, e siccome la guida spirituale dei Tibetani è nemica della Cina, noi maneggiamo il Dalai Lama come una polpetta rovente: vorremmo gustarcela, ma nessuno si azzarda a morsicarla per non scottarsi. Real politik si chiama. O anche più semplicemente difesa della pagnotta. Con una innegabile e deplorevole quota di pavidità. Dunque, va apprezzato il gesto del Governatore della Toscana Rossi che ha invitato il nobile ospite al consueto meeting di dicembre che ricorda la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948). Un po’ meno la retromarcia del sindaco di Milano Pisapia che al Dalai Lama voleva dare addirittura la cittadinanza onoraria, e che alla fine, a quanto pare su pressioni anche del governo di Pechino, finirà per far pagare anche la tassa di soggiorno.
 

Apprezzabile Rossi che governa una regione in cui la presenza cinese non è certo marginale. Anzi. Deprecabile Pisapia, primo cittadino di una delle maggiori chinatown d’Europa. Intendiamoci. Un conto è far fare al profeta dei buddisti tibetani un bel discorsetto in un consiglio comunale o ad una assise internazionale. Altro è scrivere “milanese” o “toscano” sulla sua carta di identità. Ma anche i gesti, e le retromarce hanno un loro valore. E comunque segnalano un problema che si ripropone ogni giorno a prescindere dal Dalai Lama.

Perché noi, con questa Cina, immensa, potente, interessante, terra di conquista dei nostri Marco Polo del made in Italy, un approccio equilibrato dovremo pure trovarlo. Per trarne, poi, anche comportamenti coerenti sul piano interno, nelle nostre città, nelle periferie, nei luoghi di lavoro. Intanto ribadendo a noi, e a Pechino, un concetto. Che a casa loro sono ovviamente liberi di fare ciò che vogliono, ma noi siamo altrettanto liberi di considerare la Cina un Paese che non rispetta i diritti civili, politici, sindacali, che limita la libertà di informazione e di associazione. Almeno secondo i nostri canoni. Il che non significa che non vogliamo avere con loro nulla a che fare. Figuriamoci.
 

Abbiamo trattato per decenni con l’Urss di Stalin e compagni, possiamo farlo a maggior ragione con la Cina di Wen Jiabao. Vuol dire solo che negli affari vogliamo giocare alla pari. Che dobbiamo scendere in campo con le stesse regole, che il loro costo del lavoro deve essere simile al nostro, che i loro orari devono essere omogenei, che l’essere stati ammessi alle condizioni degli altri paesi nel mercato mondiale giocando invece con le carte truccate, è un privilegio che può anche essere revocato. Che gli vogliamo bene, a Pechino come a Prato, ma che vogliamo bene soprattutto a noi stessi, ai nostri operai, alle nostre aziende. E anche al Dalai Lama. «Quante legioni ha il Papa?», chiedeva Stalin. «Quante legioni ha il Dalai Lama?», chiediamo noi. Nessuna? Bene. Ma per noi è un concittadino, un amico. Con le stesse legioni degli amici e concittadini cinesi.
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