“Don’t ask, don’t tell”, letteralmente vuol dire “non chiedere, non dire”. E’ un’espressione che rimanda ad una regola, di cui non ho mai capito il senso. Una regola che è stata in vigore in America fino a poco fa, fino a quando cioè Obama non ha vinto la sua battaglia, ottenendo che il Senato si esprimesse, dopo svariati tentativi andati a vuoto, per la sua definitiva abolizione. In base al principio del “non chiedere, non dire”, la presenza di gay nell’esercito americano, era tollerata solo a patto che l’omosessualità non venisse dichiarata. Mi sono sempre chiesta perché l’omosessualità mettesse così in imbarazzo l’esercito. Per quale ragione, il portare con onore la divisa e assolvere con professionalità e moralità al proprio dovere di ufficiale, fosse ritenuto da molti, incompatibile con l’avere un orientamento sessuale diverso. E mi sono risposta che ancora una volta, è una questione di stereotipi e pregiudizi. Che esistono e sono duri a morire anche in Italia, dove per combatterli è nata Polis Aperta, la prima associazione di gay e lesbiche in divisa. Incontro il presidente Nicola Cicchitti che rappresenta il nostro paese anche all’interno dell’European Gay Police Association (EGPA), la rete delle associazioni gay di polizia dei paesi europei.
Nicola, come nasce la vostra associazione?
Dalla volontà di un gruppo di persone che oltre a condividere l’orientamento lgbtq, hanno in comune anche la professione, perché appartengono alle forze dell’ordine e alle forze armate italiane.
Siete gli unici in Italia, non vi sentite dei pionieri?
Ci sentiamo impegnati in una grande battaglia di civiltà, per combattere l’omo e transfobia e la discriminazione basata sull’orientamento sessuale, promuovendo nelle caserme d’Italia una cultura di apertura verso la realtà Lgbt.
La Russa qualche tempo fa aveva detto che nell’arma non c’è discriminazione nei confronti degli omosessuali, a smentirlo è stato il generale Fabio Mini, comandante delle Forze Internazionali in Kosovo, che invece ha dichiarato che in Italia un soldato rivelando la propria omosessualità non avrebbe le stesse chance di carriera di uno non dichiarato. Sei un finanziere, hai mai subito discriminazioni da parte dei tuoi colleghi o dei tuoi superiori? O raccolto denunce di episodi di discriminazione scatenati dall’omofobia?
Personalmente non ho subito discriminazioni legate al mio orientamento sessuale. Sono una persona visibile ma non per questo ho avuto ripercussioni sul posto di lavoro. Tendo però a credere a quello che dice il generale Mini perché ho riscontrato molta difficoltà da parte dei colleghi a dichiarare, o meglio a vivere in serenità e in apertura, il proprio orientamento sessuale per timore delle conseguenze.
In America, per quasi 20 anni è stato consentito l’accesso ai gay nell’esercito solo a patto che tacessero il proprio orientamento. Oggi assistiamo alla fine della politica del “non chiedere, non dire”. Come commenti questa vittoria storica per il mondo lgbtq?
E’ un risultato importante. Uno stato democratico non può condannare le persone a negare una parte così fondamentale del proprio essere. La sfera affettiva è una componente essenziale dell’essere umano, costringere un uomo o una donna a non vivere in maniera completa la propria esistenza è una castrazione inaccettabile.
Se prendiamo come modello gli altri paesi dell’Europa che su questo tema hanno prodotto significativi avanzamenti come l’Olanda, la Spagna e la Svezia, quali sono gli interventi indispensabili perché l’Italia possa mettersi al passo?
Intanto con prese di posizione chiare e provvedimenti che impediscano la discriminazione per l’orientamento sessuale o per l’identità di genere. Poi è importante che le persone che subiscono questo tipo di discriminazioni denuncino agli organi competenti.
Spesso sentiamo dire che l’omofobia e la transfobia sono prima di tutto un’emergenza culturale, esiste però anche un problema sicurezza. Un primo passo è stato l’istituzione di un osservatorio permanente, ma dal vostro punto di vista quali altri strumenti sarebbero necessari per affrontare questa emergenza?
Abbiamo apprezzato molto la volontà della Polizia di Stato di creare questo osservatorio, abbiamo però anche sottolineato che l’esperienza europea dimostra che esistono anche altri strumenti operativi che possono essere attuati immediatamente.
Quali?
Prima di tutto una campagna di informazione ad opera delle forze di polizia che si ponga come obiettivo la crescita della fiducia delle persone lgbtq nelle istituzioni preposte alla loro tutela. Una fiducia che può servire da stimolo alla denuncia dei reati a sfondo omofobico, che nella maggior parte dei casi restano sommersi e quindi non sono perseguibili. Si possono inoltre istituire figure di agenti di collegamento, un’esperienza nata principalmente in Inghilterra, che sono punti di riferimento stabili e costanti per tutta la comunità lgbt. Non è importante che siano omosessuali, è sufficiente che abbiano una conoscenza dei casi a sfondo omofobico. Infine, sarebbe importante attivare corsi di formazione per operatori della sicurezza, in modo da aumentare il bagaglio culturale e professionale di queste persone, affinché possano incidere nella risoluzione dei casi omofobici e transfobici.

Al termine dell’intervista ripenso all’invito che Cicchitti ha rivolto alle istituzioni: parlare chiaro. Perché essere gay non può essere motivo di discriminazione né sul posto di lavoro né in altri contesti. Mi vengono in mente le dichiarazioni del sottosegretario Giovanardi che invece consiglia agli omosessuali di tenere per sé la propria omosessualità, di non farne un manifesto politico. E allora capisco dov’è il trucco. Finché l’omosessualità resterà confinata nelle quattro mura di una camera da letto, allora sarà tollerata come una specie di perversione, che qualcuno si concede. E sarà più semplice non dare cittadinanza sociale alla sua dimensione reale e affettiva. Perché la verità è che non è una questione di sesso, stiamo parlando di amore.