Deborah Orlandini è pugliese. E’ nata a Lecce e ha un passato da uomo che non ricorda più. Sono passati quasi 5 anni da allora, da quando cioè non era nella sua pelle. Ora è finalmente quello che ha sempre sentito di essere: una donna. Chi la conosce bene, sa che è una persona tenace. Un appello su facebook mi porta da lei: ”Sono stata avvisata di un’emergenza riguardante una persona transessuale di 26 anni che al momento si trova a Bari. Serve alloggio e sostentamento di emergenza. Teniamoci tutti in allerta pronti a dare una mano. Chi è disposto me lo scriva in PVT (privato). Niente regno dei cieli, ma soddisfazione di servire a qualcosa sulla terra ok?”. Da quello che scrive e dalle informazioni che raccolgo, intuisco che se non fa l’avvocato, almeno deve intendersene di questioni legali. Così, faccio un giro di telefonate e attraverso Rete Lenford, la rete di avvocatura per i diritti GLBTQ, la raggiungo telefonicamente.

Perché le persone transessuali danno così fastidio alla società?
Io credo che dipenda dal fatto che noi transessuali mettiamo in crisi l’unica vera certezza primordiale della società e cioè che, da un lato ci sono i maschi e dall’altro ci sono le femmine. Di noi spesso viene data un'idea assolutamente distorta, confusa, qualcosa che non mette la gente in condizioni di capire. E come disse M. Jackson "la società tende a distruggere ciò che non capisce”.

Dalla maggior parte delle persone transessuali, la gente si aspetta o che siano già sulla strada o che ci finiscano prima o poi. Secondo te perché?
E’ un cliché che quasi mai corrisponde al vero, associare il transessualismo alla prostituzione è funzionale ad una logica discriminatoria. E’ come quando si associa l’omosessualità alla pedofilia, si dice una pericolosa falsità, per alimentare il pregiudizio. E' vero però che in molti casi la prostituzione è stata l'unica possibilità di sopravvivenza per chi si è trovata senza lavoro, ha visto frustrate le benché minime possibilità di trovarne uno e si è vista abbandonata dalla famiglia, dalle istituzioni, dai servizi sociali, dagli enti di beneficenza ecc.

Recentemente a Livorno, c’è stata la denuncia di un caso di discriminazione sul lavoro da parte di una persona transessuale nei confronti dell’azienda per cui lavorava. Ti è mai capitato di perdere il lavoro per il fatto di essere transessuale?
Sì, purtroppo è capitato anche a me. Lavoravo ormai da diversi anni, nell’ufficio legale di un'azienda. Pur non avendo ricevuto contestazioni o lettere di licenziamento, un giorno sono stata invitata dal mio datore di lavoro a trovare entro sei mesi un’altra occupazione, diceva, per motivi di bilancio. Dopo circa un mese, sono stata invitata a trovare questo famoso lavoro entro tre mesi, dopo dieci giorni ho ricevuto un altro invito a trovarlo entro un mese. A quel punto, mi sono vista costretta a presentare una lettera di licenziamento e in seguito ad avviare una vertenza che si é conclusa con una transazione.

Secondo te perché il tuo ex datore di lavoro ha agito così?
Per me è stato abbastanza facile associare tutto questo al fatto che i primi cambiamenti, a seguito dell’assunzione di ormoni, iniziavano ad essere evidenti e i pettegolezzi cominciavano a circolare nell’ambiente di lavoro.

E con colleghi, invece, com’è andata?
Prima ci sono state le battutine più o meno scherzose nella pausa caffè, del tipo “ma come reggi quella sigaretta sembri una trans” oppure “com’è che ti interessano tanto i discorsi da donne” fino al più comune “ma dillo che sei gay”. Poi è arrivato il punto in cui quello che facevo e come lo facevo non andava più bene, i miei lavori venivano affidati ad altri con la scusa della riorganizzazione interna. E finisce che non hai più una posizione di lavoro assegnata, oppure arrivi in ufficio e la tua scrivania è occupata da altri. Questo a me è successo per ben tre volte, in tre diversi posti di lavoro. Perché se capita che il mio curriculum interessi, poi la paura che la gente si accorga che in quell’ufficio ci lavora una trans e che questo possa comportare una riduzione del giro d’affari, prende spesso il sopravvento.

Ma allora perché non tutte le persone trans o gay vittime di discriminazione sul lavoro denunciano?
Perché gli ambienti lavorativi sono una specie di casta, se porti uno studio o un’azienda davanti ad un giudice del lavoro, in breve tempo si sparge la voce e lo sanno tutte le attività produttive nel giro di 100 km. Ed è come se fossi iscritta in una lista nera. Da quel momento non solo sei la trans, ma sei anche quella che fa le vertenze, e quindi non sei da assumere. A volte si conserva la speranza che attraverso un atteggiamento di basso profilo possa residuare qualche possibilità.

Mi sembra di capire che, però, l’esistenza di tutele per chi è discriminato perché trans, non risolve il problema più serio di trovare poi un altro lavoro.
Proprio così, per noi transessuali il problema più serio è l’accesso al lavoro. Siamo demonizzate dall’immagine che soprattutto i media danno di noi, e il risultato è che nessuno vuole avere a che fare con una transessuale, come se non fossimo ritenute adatte a svolgere alcun tipo di lavoro. E’ come se ci fosse una specie di presunzione assoluta nei nostri confronti.

Una presunzione? Di che tipo?
La gente pensa che se decidi di cambiare sesso allora hai qualcosa che non va nel tuo cervello e quindi sei inaffidabile, inadatto a qualunque tipo di lavoro. Ciò che prevale nella percezione del potenziale datore di lavoro è che sei trans, non che sei una persona preparata e volenterosa. Come dire “con tanti bravi padri di famiglia che la crisi mette per strada, chi me lo fa fare a dare lavoro ad una trans”. Però, vorrei ricordare, che anche noi siamo esseri umani e cittadini e non cambiamo sesso certo perché abbiamo un’irrefrenabile voglia di fare le prostitute.

Secondo qualcuno, però, se pure ci fossero più occasioni di lavoro per le persone transessuali, non tutte lascerebbero i guadagni facili della strada. Chi la pensa così si sbaglia?
Il mondo della prostituzione è una spirale che quando ti avvolge difficilmente ti lascia andare, specialmente se sei giovane e attraente e non hai sviluppato una forza caratteriale che ti consente di tirartene fuori. Questo per chi non cade addirittura in reti di sfruttamento in mano alla criminalità. E per andare dove poi, se come dicevamo, ti trovi circondata da un muro di indifferenza per la tua sorte, che ti annienta psicologicamente. Prostituirsi poi, significa mettere a repentaglio la propria incolumità e la propria vita. La quasi totalità delle transessuali uccise esercitavano la prostituzione.

Quando parlavi di un problema più urgente di accesso al lavoro, ti riferivi a tutte le tipologie di lavoro?
Secondo le stime dell’ONIG, l’Osservatorio Internazionale sull’Identità di genere, le transessuali sono lo 0,005% della popolazione italiana. Non tutte le persone transessuali hanno problemi di inserimento lavorativo, non ce l’ha chi studia, chi ha un’azienda di famiglia, chi è già in una situazione lavorativa protetta prima della transizione. Ci sono degli ambiti in cui il fatto di essere transessuale non è un problema.

Quali?
I call center ad esempio, non hanno in genere problemi ad assumere, o il mondo dell’arte e dell’intrattenimento in generale. Ci sono professioni particolarmente richieste come quelle nel settore informatico e della medicina dove la condizione di persona transessuale o transgender passa in secondo piano. Però evidentemente non siamo tutte artiste o medici o geni dell'informatica,quindi chi non rientra in queste categorie, ha un problema molto serio di accesso al lavoro, e qualche volta nonostante abbia tutti i requisiti, non trova sbocchi. Chiaramente la situazione è molto più grave al sud e nelle isole dove l'economia è meno dinamica, il turn over molto lento e i tassi di disoccupazione giovanile rendono praticamente impossibile per una persona transessuale inserirsi nel mondo del lavoro. E queste sono situazioni drammatiche che sono irrisolvibili senza interventi radicali.

Come ad esempio?
Si potrebbero concepire degli incentivi all’assunzione da parte di privati attraverso degli sgravi fiscali sostanziosi che rendano conveniente assumere una transessuale e che non manderebbero di certo in malora lo Stato. Non si tratterebbe di un trattamento di privilegio, perché stiamo parlando di persone che non hanno le stesse possibilità degli altri sul mercato del lavoro. Gli Enti locali potrebbero elaborare progetti di inserimento lavorativo, affidando ad esempio dei servizi pubblici a cooperative gestite da persone transessuali, piuttosto che escluderci anche dai servizi sociali come l’assistenza domiciliare integrata, solo perché siamo ritenute persone “non socialmente presentabili”. Tutto questo, però, dipende dalla volontà politica di affrontare il problema.

E secondo te non c’è?
Io credo che ci siano stati troppi studi e seminari sul transessualismo, ed è ora di passare all’azione. Perché quando una persona transessuale è in difficoltà vuol dire che sta davanti ad un bivio: prostituzione o suicidio. Gli psicologi usano un termine inglese "helplessness", ovvero la sensazione di abbandono, la consapevolezza di essere privi di qualsiasi sostegno. Abbiamo detto quanto sia pericoloso il mondo della prostituzione. Non è il caso si prendere sotto gamba il problema, perché c’è gente che muore e, oggi come oggi, nel mondo transessuale ci sono tante persone culturalmente preparate con curricula di tutto rispetto e capacità lavorative non inferiori a qualunque altro lavoratore. Insomma possiamo anche noi contribuire al progresso della società.

Tu credi che negli altri Paesi per le persone transessuali sia più semplice trovare lavoro?
Sì, perché nel nostro Paese occorre prima di tutto un cambio di mentalità. Recentemente il ministero della difesa britannico ha dichiarato “a noi non importa se una persona cambi sesso, ma che sappia fare il suo lavoro”. In Italia purtroppo siamo lontanissimi da questo tipo di logica.

 

Al margine della conversazione, con una battuta fuori dai denti, perfettamente nel suo stile, Deborah mi fa capire che, è molto difficile che qualcuno dovendo scegliere, si faccia difendere da un avvocato transessuale. Parla “per esperienza”. Eppure lei non si è arresa, non è finita sulla strada né ci finirà. Al momento collabora con alcune associazioni, fornisce consulenza legale. Riceve decine di richieste d’aiuto, a cui fa seguire appelli e mobilitazioni come quello che mi ha portato da lei. Per molte altre persone transessuali, invece un lavoro onesto, purtroppo è ancora un miraggio.