Firenze, 5 maggio 2010 - ALLE CINQUE del pomeriggio, dopo sei ore di efficace requisitoria in cui l’agonia di Clara Palomba diventa un pugno nello stomaco, il pubblico ministero Alessandro Crini si schiarisce la voce e, in un’aula bunker soffocata dalla tensione, chiude il cerchio con le richieste di condanna alla Corte d’assise di Firenze: «Per Dario Palomba anni 22 di reclusione; per Elisabetta Ontanetti anni 14 e mesi 6 di reclusione». Entrambe le richieste — considerate le attenuanti equivalenti alle generiche per lui e prevalenti per lei — sono di poco superiori al minimo previsto dal codice per l’imputazione di omicidio volontario. I genitori della sedicenne diabetica, morta il 13 maggio 2008 all’ospedale pediatrico Meyer, dopo una lunga agonia causata dalla deliberata sospensione dell’insulina salvavita, non battono ciglio. Seduti accanto all’avvocato Neri Pinucci accolgono in silenzio l’inevitabile conclusione, parole del pm Crini, «di una contestazione grave e pesantissima, di cui avverto per intero la responsabilità sulle mie spalle».
 

Possibile, anzi, pensabile imputare a un padre e una madre l’omicidio volontario della figlia? Secondo la procura sì: sulla base del cosidetto «dolo eventuale» che, secondo la Cassazione, sussiste «quando l’agente si sia rappresentato come probabile e possibile anche l’evento morte e, ciononostante, abbia agito, così accettando di esso preventivamente il rischio e mostrando in definitiva di volerlo cagionare». Tradotto: i genitori di Clara, secondo l’accusa, sarebbero stati ben consapevoli del rischio che avrebbe comportato per la figlia sospendere l’insulina, ma lo avrebbero consapevolmente accettato con tutte le conseguenze.
Un processo difficile, quello portato avanti da Crini, perché — come ammette lui stesso — si parla di «un fatto dal taglio e contenuto assolutamente inedito, di assoluta singolarità, di un qualcosa con cui si ha difficoltà a confrontarsi per l’estraneità rispetto a tutto ciò con cui abbiamo avuto a che fare fino a oggi». E cioè: «Un caso di insulinodipendenza pacifica nel quale il trattamento viene proditoriamente interrotto sine die e sostituito con una terapia a base di inefficienti vitamine». L’indicazione che più drammatizza la vicenda processuale è proprio questa: «Non c’è casistica con riferimento a un diabete diagnosticato e in cura in cui si sia interrotta l’insulina a oltranza».
 

A Clara il diabete non solo fu diagnosticato con colpevole ritardo (l’omeopata di Modena che sbagliò la diagnosi è definito «eroe negativo» della vicenda) ma, una volta iniziata a stare meglio, i genitori, tramite un altro medico alternativo, finirono nelle mani della santona Marjorie Randolph (deceduta), con la quale ebbero «un contatto dirompente» e ricevettero «un messaggio delirante»: che il diabete si poteva curare, che le ulcere alle gambe di Clara — clamoroso effetto secondario del ritardo della diagnosi — erano in realta la causa del diabete stesso. Una situazione definita da Crini «devastante sui contenuti e che contraddiceva un’esperienza plurisecolare». Argomenti «deliranti, di assoluta originalità e con alcun livello di paragonabilità». Da questa follia, però, nasce nel padre «un subitaneo innamoramento, acritico e superficiale». Ma, accusa ancora il pm, «la funzione di garanzia del genitore era concentrarla sul problema vero, non disorientarla e farle perdere la bussola».
 

Clara è convinta «piano piano» (parole del padre) ad accettare ancora una via alternativa, mentre il Meyer viene abbandonato e, di nascosto a tutti, i genitori si affidano alla Randolph: «La clandestinizzazione del rapporto con lei avvenne per sfuggire al confronto. Era un terreno così eversivo dal punto di vista medico che confrontarsi significava chiudere la partita». E anche, forse, perdere la potestà. Clara, così, «finisce in una bella tenaglia»: da una parte una santona che le dice tutte queste «fandonie» e la figura paterna che la spinge su una strada che non vuole ma che viene definito geniale dalla santona stessa in una lettera.
 

I Palomba faranno stare Clara, prima di chiamare i soccorsi, «dieci giorni senza insulina, 20 ore priva di sensi e 15 con il respiro rantolante». Si affidano telefonicamente alla Randolph, che li invita a non dare l’insulina a Clara, e «scelgono di prestare ascolto a questi deliri piuttosto che riferirsi a quel che si sa, al percorso vero da affrontare. In questa scelta, in cui la speranza può esserci sul piano ideologico ma non può avere un minimo corredo di ragionevolezza, si esprime il dato dell’accettazione del rischio». Quando finalmente viene chiamato il 118, Clara sta perdendo «materia scura» dalla bocca e dal naso, il medico si trova davanti a «una situazione ai confini della realtà: tale, tanto e così eclatante è il carattere surreale di quello che si sta verificando». E la dichiarazione del padre — «pensavamo di avere più tempo» — appare la consequenziale dimostrazione della chiara accettazione del rischio: di fatto fu «una sperimentazione sul diabete della figlia minore».
Dopo sei ore sono arrivate le richieste del pm alla corte d’assise. Martedì la parola alla parte civile e alla difesa. Il 18 maggio la sentenza.