Le utopie radicali

Il commento

Firenze, 1 novembre 2017 - La mostra Utopie Radicali, attualmente in corso alla “Strozzina” a Firenze, non è solo un’occasione per rivisitare criticamente il movimento che ne fu alla base, a mezzo secolo di distanza dal suo esordio, ma forse, è anche l’occasione per riflettere sul ruolo che quel fecondo momento creativo ebbe a fronte di una stagione di progressiva violenza nel Paese.

La mostra è curata da Pino Brugellis, Gianni Pettena e Alberto Salvadori; presentata in catalogo con ben quindici contributi. In un allestimento garbato ed efficace, sono presenti Archizoom Associati, Remo Buti, 9999, Gianni Pettena, Superstudio, UFO, Zziggurat. Diciamo subito che bene hanno fatto le Fondazioni Palazzo Strozzi e CR Firenze a consentire questa utile e importante iniziativa, che può essere d’auspicio ad una maggiore e più sistematica attenzione alla cultura architettonica e del design.

Per capire meglio queste utopie radicali occorre riportarsi al ribellismo culturale che caratterizzava quegli anni, alle occupazioni della Triennale di Milano e della Biennale di Venezia, all’autunno caldo del ’69, alle “lotte studentesche”, alla critica radicale del capitalismo e del welfare state ed altro ancora, per capire cosa sia stato questo milieu culturale scaturito dalla facoltà di architettura fiorentina e rapidamente apprezzato in tutto il mondo. Studiare a Firenze, frequentare la facoltà di architettura di Savioli, di Ricci, di Benevolo, di Koenig, di Eco, ma anche – oppositivamente – di Sanpaolesi e Vagnetti, fu forse una condizione di stimolo e fecondità creativa che costituì una fucina, un humus irripetibile.

Un critico acuto, qual è Germano Celant, coniò questo movimento incarnato da giovanissimi quali Massimo Morozzi, Andrea Branzi, Adolfo Natalini, Cristiano Toraldo, Remo Buti, Gianni Pettena, Lapo Binazzi e altri, come “architettura radicale”: a significare, nella loro sperimentazione critica, una resistenza e un forte dissenso dalle tradizionali e correnti forme d’arte. Così, cambiavano i paradigmi: arrivavano l’arte povera, i media alternativi, le installazioni e la performance art. Materia tutta intrinseca ai Dream Beds di Archizoom, agli Istogrammi di Superstudio, agli Urboeffimeri di Binazzi. Una vasta materia sperimentale ripresa da “Casabella”, la più prestigiosa rivista di architettura.

Già qualche anno dopo, nel 1972, il MoMA di New York volle ospitare la mostra “Italy, The New Domestic Landscape”, certificando a livello mondiale l’interesse per quella singolare stagione fiorentina. Ma c’è un aspetto, a mio parere non secondario che il movimento “Radical” e le sue utopie ebbero: il ruolo ironico, non violento e intelligentemente critico che costituì una borderline, un vero e proprio fronte di contenimento contro l’ideologia crescente della violenza. Come dire: l’uso della cultura contro la violenza della barbarie. Non è cosa di poco conto.