"La guerra mi ha rubato la giovinezza" nel diario di Giuseppe Salvemini di Castiglion Fiorentino finalista del Premio Pieve. Il commento di Marco Paolini

Presentazione degli otto diari finalisti in anteprima venerdì 4 settembre ad Arezzo nel giardino pensile della Provincia in attesa del Premio Pieve che si terrà dal 18 al 20 settembre

marco paolini

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AREZZO 2 settembre 2015 _ Anteprima del Premio dei diari di Pieve Santo Stefano venerdì 4 settembre alle 17,30 nel giardino pensile della Provincia con la presentazione degli otto diari finalisti. E Premio Pieve a Pieve Santo Stefano dal 18 al 20 settembre. 

DIARIO DI GIUSEPPE SALVEMINI DI CASTIGLION FIORENTINO "CON IL FUOCO NEL SANGUE" 1916-1917

FU UN MASSACRO così immane da spegnere gli entusiasmi persino di quelli che avevano pensato alla Grande Guerra come a una splendida avventura. E’ il caso di Giuseppe Salvemini, ufficialetto di complemento di Castiglion Fiorentino, il cui diario (un altro degli otto finalisti dell’edizione di quest’anno, un altro di quelli che venerdì saranno presentati nell’anteprima aretina al giardino pensile della Provincia, il cui media sponsor è proprio La Nazione) è la testimonianza più efficace di come la vita di trincea, la tensione dell’assalto al nemico potessero cambiare gli stati d’animo dei combattenti. Del sottotenente che arriva in zona di operazioni sappiamo poco e niente, se non che ha frequentato l’Accademia di Modena e che ama vivere spensieratamente: l’amicizia, l’amore, la passione suscitata dalle ragazze che incontra sono il suo pensiero più frequente. E’ un ragazzo del ’97, Salvemini, dunque ha vent’anni e anche meno: un volontario, non un richiamato. E’ stato uno degli studenti interventisti del Maggio Radioso del ’15? Non è dato conoscerlo, perchè lui non ne parla, anche se certo, in principio, non è tra quelli che vive la guerra come «inutile strage»: «Sono tornato all’attendamento con un insolito fuoco nel sangue», scrive all’inizio della sua esperienza in prima linea, con toni quasi dannunziani. IN QUESTI MOMENTI la sua attenzione più che al nemico austriaco o alla paura va alle avventure galanti, a una in particolare con una ragazza slovena, Felicita, conosciuta a Clodig, paesino dell’alto Isonzo, in piena zona di operazioni, con cui vive una travolgente storia d’amore, raccontata nel diario con l’entusiasmo del ventenne: «Ho stretto a me quel corpo tiepido, del quale sentivo il brucior d’ogni vena e il sangue correre e gorgogliare, e ho baciato le sue labbra brucianti, di fuoco. L’ho baciata ovunque con una furia piena di desideri; quindi con le dita tremanti ho sbottonato e frugato, stretto e lisciato con una voluttà strana e desiderosa . Ho guardato d’intorno e ho visto delle persone! L’ho baciata e le ho detto: a stasera, e sono corso via!». Anche l’amore, ahinoi, in prima linea è solo una breve parentesi. Finisce tutto con la decima offensiva dell’Isonzo, fra il maggio e il giugno del 1917, un’altra delle vane spallate con cui il generalissimo Cadorna cerca di piegare la resistenza degli austriaci. Il reggimento di Salvemini viene spostato in un altro pezzo del fronte, Felicita diventa solo un ricordo sempre più sbiadito. Quello che emerge dall’impatto frontale col nemico è un altro uomo, il diario si fa cupo, quasi truce nella descrizione fin troppo realistica degli effetti della battaglia: «Continuamente cadevano vicino e sopra noi membra spezzate, frammenti di corpo, materia calda e sanguinolente e ci macchiava gli abiti, il volto e ci terrorizzava dallo spavento». Ben altra prosa rispetto a quella immaginifica di D’Annunzio. UN SALVEMINI attonito osserva le conseguenze più drammatiche della disciplina di ferro, fino alle fucilazioni sommarie. Poi finisce anche lui in ospedale, intossicato dal gas. Ma l’esercito non riconosce il suo sacrificio e lui se ne lamenta amaramente: «Quale amore devo portare io alla Patria, che dopo aver dato a lei tutto ciò che avevo di più caro, la giovinezza, essa mi ricompensa osando dire che il mio male l’avevo e non è vero l’abbia preso per farla più grande?». Tornerà a Castiglion Fiorentino e lì morirà dei postumi il 13 ottobre 1918, alla vigilia di Vittorio Veneto, senza vedere la vittoria. La sorte gli ha risparmiato di vivere il tumultuoso dopoguerra che cambierà il destino di tanti ex ufficiali come lui.

 

MARCO PAOLINI: "Quando ho scoperto quello che avviene all’Archivio dei diari di Pieve Santo Stefano, mi sono detto: sono dei pazzi! Dei pazzi che sicuramente vengono tenuti d’occhio. Perché se intercettano le telefonate delle persone per tenerle sotto controllo, figurarsi se non si preoccupano di monitorare gente che scrive. Uno che scrive per alimentare la sua memoria, la memoria della sua famiglia e della collettività in cui vive, non può che essere una persona pericolosa. Perché? Perché non partecipa al processo di rimozione. Mi sono chiesto infatti per quale ragione Saverio Tutino, la comunità dell’Archivio ma anche io stesso, a un certo punto della nostra vita, abbiamo sentito il bisogno di cominciare a lavorare sulla memoria. A me è successo, ma credo che per l’Archivio sia andata più o meno allo stesso modo, che ho cominciato a raccontare storie mie, personali. E a un certo punto mi è capitato di raccontarne una più lunga, talmente lunga e pubblica che quando l’ho raccontata alla televisione, è successa una mezza rivoluzione. Era la storia di una diga, che è rimasta su, anche se la montagna che c’era intorno è venuta giù e l’acqua ha distrutto tutto. Ma quello che ho raccontato io è solo uno dei molti, moltissimi episodi drammatici di cui è disseminata la storia del nostro Paese. Molti altri, hanno lasciato traccia nelle testimonianze raccolte e rese pubbliche grazie all’Archivio. L’Italia è una famiglia che è stata abituata a vivere con la tragedia, con il lutto in casa. E come si fa a sopravvivere con il lutto in casa e con la tragedia? Ci sono due modi: o elabori il lutto, o lo rimuovi. Se elabori il lutto, si è tutti insieme. Se lo rimuovi, ognuno è per conto suo. Noi siamo sopravvissuti al lutto, ma abbiamo pagato con il più grande processo di rimozione della storia collettiva del nostro continente. È questo il nostro male di oggi. Un male che una realtà come quella dell’Archivio dei diari, con il lavoro che porta avanti ogni giorno da anni, ci aiuta a curare.