Etruria a Ubi, i nuovi scenari: i conti, le prospettive, dove il centro direzionale, l'oro

La banca aretina e la città: si apre una nuova stagione dopo l'offerta di acquisto arrivata da Bergamo

Ubi e Banca Etruria

Ubi e Banca Etruria

Arezzo, 13 gennaio 2017 - «Non è un salvataggio, è un affare». Parla chiaro Victor Massiah, il nuovo uomo forte di Etruria & C., nella sua prima uscita pubblica, davanti agli analisti finanziari, dopo che Ubi, alle sette di mattina, ha finalmente ufficializzato la sua offerta vincolante d’acquisto per le tre Good Bank. La Borsa gli crede e premia il titolo del gigante del credito popolare bergamasco-bresciano con uno squillante 9 per cento di aumento, che ha avuto punte fino all’11 per tuttala mattinata.

Ubi, dopo una trattativa a fasi alterne, che è durata tre mesi e mezzo, da settembre in avanti, porta a casa condizioni importanti: prezzo simbolico a un euro, 2,2 miliardi di crediti deteriorati ceduti al fondo Atlante, 450 milioni di ricapitalizzazione a carico del venditore e cioè del fondo di risoluzione, 130 milioni di costi per la ristrutturazione, in soldoni per la gestione di almeno 900 esuberi, sempre a carico del fondo di risoluzione, 600 milioni di crediti fiscali che andranno ad abbattere gli utili e quindi si trasformeranno in ulteriori profitti.

A fronte di questi vantaggi, Massiah si assume un solo impegno veramente oneroso, l’aumento di capitale da 400 milioni, voluto da Bce, che consentirà a Ubi di mantenere gli attuali ratios patrimoniali dell’11 per cento, contro il 9 delle Good Bank. A regime, stima il consigliere delegato, ciò permetterà alla banca che nascerà dalla fusione un utile di 1,2 miliardi di qui al 2020, contro i 900 milioni ipotizzati finora per la sola Ubi.

Per Banca Etruria è un nuovo inizio, dopo l’interminabile periodo cominciato con la crisi della vecchia Bpel, il commissariamento dell’11 febbraio 2015, la risoluzione del 22 novembre. Una riparenza carica di speranze ma anche di incognite, che segna la fine di una storia e l’avvio di un’altra. Quella della banca nata nel 1882 termina qui, più ancora di quanto non si fosse conclusa con i commissari e poi con il varo di Nuova Etruria. Di qui a un anno al massimo, non ci sarà più una banca autonoma ma un segmento di un grande istituto di credito nazionale.

Addio all’autonomia, ma ormai era inevitabile almeno dall’intimazione di alleanza del governatore Ignazio Visco nel dicembre 2012, addio anche al nome. Ormai è solo questione di tempo, dopo la fusione nel nuovo gigante le insegne Ubi sostituiranno quelle di Etruria. Il tutto si tradurrà nel ridimensionamento non tanto della rete commerciale quanto dell’attuale centro direzionale, che non sarà più la testa di una banca autonoma ma il cuore di una delle sue articolazioni. Cosa resterà nel cubo di vetrocemento di via Calamandrei?

E’ anche da questa domanda che dipende la questione degli esuberi: più si taglia in questo cervello e meno dipendenti servono per gestirlo. Previsioni è impossibile farne, specie nel momento in cui Ubi, cui servirà almeno fino ad aprile per il closing dell’operazione, cioè per il perfezionamento dell’acquisto, non ha ancora presentato un piano industriale.

E’ possibile però che Massiah e il suo staff lascino qui una direzione territoriale cui facciano capo le filiali dell’area ex Etruria: in Toscana, Umbria e Lazio Ubi non era finora presente, è un territorio vergine nel quale non ci sono sovrapposizioni, con buone possibilità di sviluppo. C’è poi la questione oro.

La vecchia Bpel era l’unica banca italiana, insieme a Popolare Vicenza, che gestisse affari e trading legati al metallo. La logica lascia pensare che Ubi voglia sfruttare questa specificità e che voglia farlo dal cuore di una delle capitali italiane del settore. Specie nel momento in cui la concorrente Popolare di Vicenza è anch’essa in profonda crisi e lascia dunque spazi importanti di sviluppo. Insomma, la cura dimagrante è inevitabile: quali e quanti dipendenti riguarderà dipende dalle trattative sindacali. Ma non è la fine di una storia. Tutt’altro. Ce ne è un’altra che si apre ed è ancora da scrivere.

di Salvatore Mannino