Arezzo, 28 febbraio 2012 - Piange il carrello. Ma piange soprattutto chi lo spinge. Piange a dirotto: perché il peso è sempre quello ma lo scontrino no. Cresce, cresce a vista d’occhio. E soprattutto cresce sotto gli occhi degli esperti di Comune e Istat che curano il report sui prezzi al consumo. Un servizio che nel giro di pochi mesi è diventato l’identikit di un fenomeno. Ora il quadro del 2011 è completo: e racconta di una stangata del 7,5%. Una stangata fantasma, di quelle che ci sono ma non si vedono. Eccome se di vedono.

Il raffronto è semplice: i prezzi medi a gennaio e quelli a dicembre. Per ogni prodotto un’unità di misura standard, ovviamente la stessa, e le cifre in colonna come giocassimo con la Lego: ma non è un gioco se non quello, a volte un po’ più amaro, della vita. Il conto che a gennaio veniva 180 euro e 78 centesimi, ora si attesta a a194,35. Beninteso: le unità di misura a volte sono ampie, vanno dal chilo di burro al litro di olio al chilo di caffè.
Ma quello che conta è il confronto: ed è quello a raccontare di un aumento che si attesta al 7,5%. Un aumento reale, tutto aretino: non una di quelle strane medie nazionali, nelle quali non capisci dove arrivi la stangata di Abbiategrasso e dove cominci la tua. E’ misurato lì dove facciamo la spesa tutti i giorni, dal negozio al supermercato dietro l’angolo a quello dei grandi carrelli.

E disegna un identikit della crisi diverso da quello nazionale: il paniere, il famoso panierino dell’inflazione, registra un aumento sugli stessi dodici mesi del 3,2%. Ma lì dentro c’è di tutto, dall’alimentare a quello che alimentare non lo sarà mai.

E ci sono soprattutto tante polemiche: perché la scelta dei prodotti è sistematicamente accusata di misurare gli aumenti dei prezzi solo al ribasso. Che almeno in certi settori crescono di più: esempio? Il settore alimentare. Lì il carrello piange dcavvero, almeno ad Arezzo. E su certi prodotti singhiozza. Il burro ad esempio. Un trend già apparso evidente nel corso del 2011: e che taglia il traguardo dell’anno appena tramontato registrando un aumento medio al chilo del 16,2%. Burro, non oro, a dispetto delle apparenze. E neanche grana; che del resto aumenta quasi allo stessi ritmo. Perchè il padano continua a costare meno del parmigiano (circa cinque euro la differenza) ma la forbice si sta restringendo: perché uno è cresciuto del 5,4% e l’altro del 14,5.

In un anno lo spread più caro ai maccheroni è calato di un euro, menre il muso lungo della massaia è cresciuto di un metro. A confronto continua a convenire il pecorino, salito in dodici mesi appena dell’,1,5% e che ormai costa appena 50 centesimi più del grana padano. Ma a pesare nel carrello ci sono altri prodotti di grande consumo. Il pane è salito del 5,6%,. anche se gli operatori spiegano che in questo campo la pezzatura fa la parte del leone.

Il latte a lunga conservazione, insieme al pane il pasto dei pensionati, si è impennato del 12%: la differenza con il latte fresco si è ridotta in un anno a soli 35 centesimi. Poi c’è il fenomeno caffè: quello tostato è passato al chilo da 9,87 euro a 12,42. L’aumento è del 25,8%, come se da un carrello all’altro fossero passati non dodici mesi ma dodici anni. E non scherza neanche il decaffeinato, cresciuto nello stesso periodo del 21%. Batoste, batoste in dispensa. Poco male, direte, basta un poco di zucchero e la pillola va giù. Calma.
Perché proprio lo zucchero, dietro l’apparenza dolce di chi non fa male a nessuno, registra un balzo in avanti quasi «cinico»: l’aumento è del 32,5%, da 89 centesimi ad un euro e 18 centesimi al chilo. Così, zitto zitto, modesto e umile, al primo giro di cucchiaino continua a sciogliersi nella tazzina: più o meno come i nostri stipendi.

di Alberto Pierini