Minati dai tedeschi in fuga: intero paese si mobilita per salvare Madonna dei Della Robbia

I "miracoli" dei monument's men alla fine della guerra. La storia avvincente di Pieve Santo Stefano a protezione del suo capolavoro. L'impresa di un tenente americano l tenente statunitense Frederick Hartt

Frederick Hartt

Frederick Hartt

Arezzo, 17 aprile 2017 - Seguire passo dopo passo, in provincia di Arezzo, alcuni dei così detti «monument men», militari americani e britannici addetti alla salvaguardia e al recupero delle opere d’arte in tempo di guerra, ci permette di compiere delle singolari, istruttive escursioni nella nostra stessa terra e di osservare luoghi e manufatti di pregio con gli occhi e la sensibilità di una cultura diversa dalla nostra.

Naturalmente la pubblicistica statunitense mette in risalto l’opera meritoria degli addetti militari, ma non meno esemplare è spesso il comportamento delle popolazioni locali. Questo singolare viaggio in casa nostra ci fa conoscere episodi che mettono in risalto il culto arcaico e tenace della gente comune per quelle opere d’arte nelle quali si condensa lo spirito del luogo, un culto che abbiamo probabilmente perduto.

Alcuni di questi eventi lontani risuonano come un monito in un’epoca come la nostra in cui, in vario modo, ci si ostina a considerare capolavori assoluti nei quali si riconosce una comunità alla stregua di banale merce di scambio. Subito dopo il passaggio del fronte, nel tentativo di raggiungere la Verna, il tenente statunitense Frederick Hartt, esperto d’arte incaricato di effettuare la ricognizione delle opere d’arte, racconta di aver fatto nella provincia aretina una delle esperienze più commoventi della sua intera permanenza in Toscana.

L’episodio narrato avviene a Pieve Santo Stefano, cittadina circondata da alte, incombenti colline e formata da una lunga, tortuosa sequenza di case appollaiate a ridosso del Tevere, il fiume che a Hartt appare «ancor fresco di sorgente e limpido come vetro sul fondo roccioso». Il paese tuttavia presenta una realtà ben diversa da questa idilliaca premonizione, infatti i tedeschi in ritirata hanno demolito l’intero paese, casa per casa, risparmiando solo la Collegiata, la chiesa parrocchiale e due terzi del Palazzo comunale.

L’utilizzo di bombe di aereo al posto delle mine, riferisce Hartt, aveva provocato l’esplosione della parte interna delle case lasciando in piedi soltanto gli spigoli e qualche brandello dei muri esterni. Lo spettacolo di questo tipo di macerie era ancor più sinistro di quello offerto da paesi interamente rasi al suolo. L’opera d’arte più importante del paese, un grande dossale d’altare della scuola di Andrea della Robbia raffigurante l’Assunzione della Vergine, si levava al di sopra di un immenso cumulo di macerie e di travi annerite a cui era ridotto l’Oratorio di S. Francesco che l’ospitava. «Imperturbabile nella sua perfetta tonalità di blu e di bianco», narra testualmente Hartt, «la grande pala d’altare splendeva come un miraggio, illuminata dalla sferzante luce che filtrava dall’abside semidistrutta».

Esposta alle intemperie e soprattutto minacciata dal possibile crollo dell’abside rimasta priva di qualsiasi sostegno, la pala versa in una situazione drammatica, per cui Hartt comunica al sindaco del paese, che gli sta facendo da guida, l’intenzione i smontarla pezzo per pezzo e di portarla ad Arezzo per farla restaurare e porre in sicurezza.

A queste parole gli abitanti di Pieve vengono colti dalla disperazione e implorano il graduato americano di lasciare la pala al suo posto. «È tutto quello che ci rimane!», esclamano, e assicurano che il paese intero, con il sindaco e il geometra comunale in testa, avrebbe risposto della sua incolumità. Colpito da tanto, spontaneo attaccamento, l’ufficiale americano acconsente alla richiesta e dice loro che, una volta messa in sicurezza la volta absidale, avrebbe mandato in paese un restauratore.

Quella gente aveva perso tutto, riflette fra di sé Hartt, era rimasta senza casa e senza un tozzo di pane, non aveva neanche un furgone per rimuovere le macerie e trasportare i morti, eppure era disposta a lavorare sodo e a sacrificarsi per mettere in salvo l’unica cosa veramente bella che aveva la cittadina, la grande pala robbiana alla quale affidavano la loro identità. Ai loro occhi il dossale d’altare racchiudeva l’anima del luogo, il suo passato e la garanzia di un futuro. Allorché, qualche mese dopo, Hartt torna a Pieve Santo Stefano, ha modo di verificare l’intraprendenza degli abitanti i quali non solo hanno sgombrato la cittadina dalle macerie e hanno costruito un rudimentale ponte sospeso sul Tevere con materiali di recupero, ma hanno puntellato l’abside con le travi e dato tutto l’aiuto possibile al restauratore.

Questi ha cominciato a smontare la pala e a trasportarne in pezzi nella Collegiata. Prima di lasciare definitivamente la Toscana, memore dell’episodio di Pieve Santo Stefano, Frederick Hartt rende una visita di commiato al paese dove, attraversato il Tevere sul fatidico ponte di fortuna, ha modo di ammirare il dossale della scuola di Andrea Della Robbia perfettamente rimontato nella Collegiata e in grado quindi di narrare una storia a suo modo esemplare.