I diari di Pieve: l'aretino Pietro Poponcini e il padre ucciso a Civitella nel 1944

Un rimorso infinito del bambino messo a guardia per avvisare dell'arrivo dei tedeschi: "il babbo ucciso per colpa mia". L'intervento dell'attore Ascanio Celestini sul suo rapporto con l'Archivio

pietro poponcini

pietro poponcini

Arezzo 12 settembre 2017 - UN ALTRO aretino tra i diari finalisti del Premio Pieve. E' Pietro Poponcini che il 9 luglio  del 1944 vede suo padre portato via dai tedeschi e lo vedrà morire. Siamo a pochi giorni dalla strage di Civitella

I CONTI spietati della guerra dicono che le vittime della strage di Civitella, la più atroce fra quante i tedeschi in ritirata ne consumarono nell’Aretino e una delle peggiori in tutta Italia, furono 244. Ma non sono i soli morti che quel territorio abbia pagato durante il conflitto. Ce n’è almeno un altro, di pochi giorni dopo, che era finora sconosciuto ai più. Ce n’è un altro per il quale il figlio ha pagato con un senso di colpa lungo 72 anni, una cognizione del dolore che solo adesso riesce ad affidare a un diario scelto come uno degli otto finalisti del premio Pieve. Il ragazzino di allora si chiama Pietro Poponcini, il 9 luglio del 1944, appena dieci giorni dopo il massacro perpetrato dai soldati della Hermann Goering, aveva solo 9 anni. Erano tempi tragici per la popolazione civile di una zona investita in pieno dal passaggio del fronte, tempi nei quali il pane quotidiano era davvero una fatica biblica. Aldo Poponcini, il padre, stava appunto cercando qualcosa da mangiare nei campi e nei boschi attorno a Piazza Gianni, un casolare di cui ormai si sono perse le coordinate geografiche. Ma i tedeschi fanno ancora paura, ne fanno ancor di più alla luce dell’eccidio di cui ormai tutti sanno. Pietro viene lasciato di guardia al margine del bosco, deve avvertire se li vede arrivare. E invece si distrae, i tedeschi arrivano e fanno prigioniero il padre, insieme ad altri tre uomini.

QUEL CHE SUCCEDE dopo non lo sa con certezza neppure il bambino di allora. Di certo, in basso, nella pianura della Valdichiana stanno avanzando gli Alleati con i loro cannoni, grazie ai quali libereranno Civitella il 15 luglio. Ma Aldo quel giorno non lo vedrà mai. «Penso – scrive il figlio - che fossero arrivati l’alleati e vedendo questo gruppo di persone  ritenendoli militari abbiano comunicato alle batterie di cannoni situati in Val di Chiana le coordinate della posizione. Diversi proiettili scagliati da quei cannoni esplodendo uccisero soltanto mio padre in particolare una scheggia attraverso il bacino all’altezza della cintura dei pantaloni». Ma è solo un’ipotesi, perché lo scenario potrebbe anche essere stato un altro: che Aldo e gli altri abbiano tentato di fuggire mentre piovevano i proiettili inglesi e che i tedeschi li abbiano abbattuti a colpi di mitra. QUEL CHE Pietro non dimenticherà mai è la disperazione della madre, un’altra vedova dopo quelle della strage: «Non ho la forza mentale mi si blocca la mano per scrivere quella disperazione che occorse a lei con la sua sola forza riuescì a metterselo sulle spalle come un sacco tenendo stretto le sue braccia, anche se le gambe venivano trainate per terra riusci a portarlo per circa mezzo chilometro ad una casa vicina». Scena terribile che il ragazzino si porterà dietro per sempre insieme al senso di colpa: «E’ stata colpa mia se è morto? E’ un motivo, è un rimorso che mi porto dietro». E chissà se la scrittura, il diario, sono almeno riusciti a lenire quel dolore impotente.

COSI'  POPONCINI RICORDA QUEL GIORNO

IO NORMALMENTE mi posizionavo all’ingresso dell’aia in modo da poter vedere quando arrivavano i tedeschi dalla strada; ad un certo punto ne scorgo quattro che vengono giù correndo velocemente, vedo mio padre lo chiamo dicendogli “i tedeschi” lui si nasconde, però fu talmente veloce la corsa di loro che arrivati trovarono quattro persone. Io ho ripensato tante volte a questo momento, dato che mio padre mi ripeteva sempre di stare attento e avvisarlo se c’erano i tedeschi. Mentre io guardavo dalla parte che si credeva che ritornassero; invece vollero attraversare il bosco e i campi arrivando alla casa dalla parte opposta li vidi sbucare all’improvviso mio padre era con me per l’ultima volta. Esaminando questo particolare mi sento in colpa. E’stata colpa mia se è morto? E’ un motivo, è un rimorso che mi porto dietro.

L'ATTORE ASCANIO CELESTINI RACCONTA IL SUO RAPPORTO CON PIEVE E IL SUO ARCHIVIO

HO CONOSCIUTO l’archivio più o meno venti anni fa. Facevo teatro in Toscana, tra Pisa e Livorno. Andavamo a vedere gente tipo Marco Paolini. Pensavamo che fare teatro poteva essere anche raccontare le storie delle persone trascrivendo quello che dicevano o ripetendo quello che avevano scritto. In quegli anni c’erano degli spettacoli di Paolini che si chiamavano proprio “diari” o qualcosa del genere. Io volevo fare l’antropologo e a teatro ci andavo poco. Non mi piacevano gli attori che imparavano a memoria. Non mi piaceva il teatro. Quelli con la voce roboante. Poi ho incontrato Andrea Bevilacqua e Cristina De Ritis. Facevamo una trasmissione di poco meno di un’ora per “La storia siamo noi”, in onda su Rai Educational. Per metà raccontavo storie della mia famiglia, un po’ vere e un po’ inventate. Per metà si ascoltavano letture da diari dell’archivio. Registravamo le puntate in giro per l’Italia. Genova, Roma, Terni… Non so se qualcuno ha visto quella roba. Se qualcuno se la ricorda. Mi sembravano belle. Una televisione a cavallo tra la classicità della TV e la nuova televisione spappolata. Che valore può avere un «giacimento» come l’Archivio per un artista? Per me l’Archivio è un pezzo di Novecento. Un Novecento indispensabile. Una memoria che, se la conosci, entra come un bastone nella vita quotidiana. Un bastone che fa a pezzi le cose, ma che può anche trasformarsi in una scopa che pulisce e riordina.