I diari del Premio Pieve: Marcheselli repubblichino senza odio né rimorsi

"Ero rimasto nel 1943 a pensare come nel 1936 _ scrive _ vorrei che gli italiani comprendessero la nostra generazione". La prigionia in un campo di concentramento a Pisa poi la libertà: "Ho preso mio fratello e sono andato alla partita Bologna-Modena"

Giuseppe Marcheselli

Giuseppe Marcheselli

AREZZO 8 settembre 2017 - Ancora uno dei diari finalisti del Premio Pieve scelti dalla commissione lettura dell'Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano per partecipare al Premio che si terrà dal 14 al 17 settembre. E' la storia di  Giuseppe Marcheselli memoria 1945 " Senza odio né rimorsi"

E’ L’ALTRA parte dell’Italia in guerra, quella dei Repubblichini che dopo l’8 settembre continuano a pensarla come nel 1936. L’Italia di un soldato che, rimasto legato al fascismo e dopo la prigionia in un campo di concentramento, decide di raccontarlo il sio 1945, «Senza odio né rimorsi» perché le future generazioni possano rileggere la storia anche da un altro punto di vista. Giuseppe Marcheselli, bolognese, classe 1916, sottotenente della Divisione San Marco della Repubblica sociale, è a Valenza (Alessandria), sulla sponda destra del Po, quando il 29 aprile 1945 arriva la notizia che la guerra è finita, l’esperienza di Salò è chiusa, è l’ora di consegnare le armi ai partigiani. E i soldati scoppiano a piangere. L’Italia dei partigiani e degli alleati sta liberando il Nord dall’occupazione di nazisti e fascisti. Giuseppe è tra questi. «Non ero figlio di squadristi, né ex-gerarca, né deportato in Germania, né idotto a mendicare uno stipendio da sottotenente. Semplicemente ero rimasto nel 1943 a pensare come nel 1936, mentre la maggior parte dei miei coetanei aveva iniziato proprio in quell’anno ormai remoto il “lungo cammino” verso l’antifascismo». Scrive una memoria senza odio né rimorsi «affinché gli italiani di questa generazione riescano a comprendere la nostra». MA PER MARCHESELLI e per i suoi commilitoni il ritorno alla vita normale è lontano e il racconto prosegue attraverso le tappe della prigionia, da Genova a Viareggio, alla pineta di San Rossore, fino al campo 338 di Coltano, vicino Pisa. Un racconto di sofferenze, dolori, violenze che accompagnano ogni detenzione nell’era nell’odio: «Costanzo Lunardini aveva lasciato in Liguria un ricordo di fegato e di severità ben meritato: c’era da attendersi che i partigiani di là si sarebbero fatti in quattro per ritrovarlo e farlo processare più o meno legalmente quale “criminale di guerra”. Decise di fuggire dal campo prima di una eventuale consegna. A mezzo luglio la custodia toccava ai filippini. Si levò prima dell’alba fingendo di recarsi al gabinetto. Cominciò a scivolare attraverso il primo reticolato orizzontale. Ad un tratto sentì di essere rimasto impigliato. La sentinella lo aveva scorto. Giunto alla sua altezza, a bruciapelo, lo freddò con due colpi di fucile che rimbombarono nel silenzio immobile». Ma anche nel campo si intravedono i germogli di un ritorno alla vita. Nasce un «Libero Ateneo» con corsi di poesia, teatro, letteratura e storia che lo stesso Giuseppe impartisce. «Veramente in quei momenti (e furono tanti) la prigionia diveniva quasi una gioia, lungamente assaporata». Col passare dei mesi, i prigionieri vengono liberati. GIUSEPPE torna a casa il 6 ottobre 1945, riabbraccia la moglie e i figli, si abbandona alla normalità: «Dalla porta delle scale sta entrando, con un giubbino di maglia rossa, fresca ed ignara, LEI. La domenica dopo, 14 ottobre, in tutta Italia erano convocati grandi comizi di sinistra per la Costituente. Ricominciava il campionato di calcio e c’era Bologna-Modena. Ho preso mio fratello, come un tempo, e sono andato alla partita».

COSI' SCRIVE NEL SUO DIARIO MARCHESELLI

«Valenza. Il Po deve essere vicino. Saranno le 10 o le 11. Il Tenente Del Bianco mi dice: “Presentatemi la Compagnia”. Li dispongo su due file di fronte. Do l’attenti. “Soldati, la guerra è finita. Il Generale Comandante ha ordinato che tutta la Divisione deponga le armi. Dopo sarete rimandati alle vostre case. Tenente, fianco destro, armi in ispalla. E cantate per l’ultima volta “S. Marco”. Dice ancora qualche parola che non intendo, perché lo sto guardando bene in viso. Del Bianco piange. Del Bianco che è stato prigioniero dei “titini” ed è fuggito, Del Bianco che ha combattuto nei Balcani a fianco dei tedeschi, ha patito i loro lager dopo la capitolazione, Del Bianco che non ha mai ceduto a minacce e lusinghe. Guardo le due righe di soldati: molti piangono. Piangono alla notizia “che si va a casa”, che la guerra non c’è più. Allora mi butto a destra, dietro una casa, perché i borghesi non mi vedano, e scoppio a piangere come un bambino». Giuseppe Marcheselli

L'INTERVENTO DELL'ATTORE SAVERIO LA RUINA SULL'ARCHIVIO DI PIEVE

MI È CAPITATO spesso di attingere dall’Archivio dei diari e dalle testimonianze che conserva per scrivere i miei spettacoli teatrali. Ricordo in particolare la prima volta che sono entrato in contatto con la fondazione per chiedere in consultazione un testo. Stavo lavorando su “La Borto”, un monologo che ha poi ricevuto diversi riconoscimenti tra cui il Premio Ubu. Mentre svolgevo delle ricerche mi è capitato di vedere un film, “Vogliamo anche le rose” di Alina Marazzi. Mi piacque molto e in allegato al dvd trovai anche un librettino, con il racconto di tre diari scritti da tre donne che avevano ispirato il lavoro della regista. In seguito ho scoperto che tutti e tre erano custoditi a Pieve Santo Stefano. Uno in particolare mi aveva colpito, con la storia di una ragazza che toccava esattamente il periodo storico che stavo trattando. Allora mi sono rivolto all’Archivio che mi ha aiutato, dopo averne verificato la possibilità, ad entrare in contatto con l’autrice del testo. Incontrare questa diarista è stato molto importante per la realizzazione del mio spettacolo, ed è stata un’esperienza umanamente appagante, da cui è nata una bellissima amicizia. L’Archivio di Pieve è anche questo, un luogo di incontro e di condivisione oltre che una fonte di stimoli inesauribile per qualunque artista. In altre occasioni, per il mio lavoro, mi sono lasciato ispirare dalle scritture delle “persone comuni” che hanno affidato le proprie storie di vita agli amici di Pieve. Posso dire di essere debitore di immagini, di scrittura e sintassi teatrale nei confronti di questo luogo magico.