AREZZO 19 dicembre 2013 - COSA C’E’ di meglio di un viaggio nell’arte del Rinascimento con la parlata rotolante di Philippe Daverio? Un secolo che non torna più e che ci fa sentire la pochezza del presente. Nel suo ultimo libro «Guardar lontano veder vicino» Daverio racconta il suo Rinascimento da Leonardo a Tiziano, da Michelangelo a Caravaggio fino alle pagine su Arezzo e Piero della Francesca.
 

E’ un messaggio per dire che il Rinascimento non fa più per noi?
«Ogni tanto lo sogniamo il Rinascimento, ma non torna più, impossibile, impensabile, come se volesse tornare Berlusconi. Non abbiamo più la grinta di quel secolo nè la sua dialettica. L’Italia rinascimentale si fondava sul cosmopolitismo, noi oggi esistiamo sul provincialismo, siamo l’opposto».
 

Nessuna speranza?
«Non è detto, se fossimo in grado di immaginare una forte integrazione europea. Ma c’è chi è contro, chi vuole tornare indietro non al Rinascimento ma all’Ottocento povero. Veniamo da una lunga malattia di populismo durata vent’anni che non è ancora risolta, ha solo cambiato tonalità politica».
 

I tesori culturali potrebbero ancora salvarci come traino turistico ed economico.
«Gli scambi culturali e quelli commerciali percorrono la stessa strada. Prendiamo Firenze e la funzione di traino di un’azienda come Ferragamo, così talmente rinascimentale nell’incrociare valore locale e prodotto internazionale, il vero concetto del business. Una fonte di ricchezza generale che abbiamo abbandonato per favorire i dipendenti pubblici. Sa perché il Rinascimento non può tornare? Perché era fondato sul lavoro, in teoria come la repubblica Italiana, si lavorava molto, si produceva molto, c’erano i lanaioli, i banchieri, i battiferro e i conciapelle».
 

Giochiamo in casa, Piero ci salverà?
«Il problema di Arezzo è che non ha mai generato un senso di identità nell’immaginario collettivo, non è percepita nettamente come Siena o Firenze. Si sa che gli aretini sono concreti, Patrizio Bertelli è un esempio di aretinità. Curiosamente la vostra cosa più fantasiosa è la fiera dell’antiquariato».
 

Quindi ci manca un’identità?
«Manca un progetto di comunicazione. Se fossi un amministratore locale non perderei l’occasione dell’Expo, per quanto sia una cosa ancora confusa e disordinata ci scommetterei per rilanciare una città come Arezzo. Chi viene da fuori è abituato a fare chilometri in automobile, per uno che viene da Vancouver in Italia, Arezzo o Milano sono a un tiro di schioppo, avete l’uscita dell’Autostrada del Sole e la linea ferroviaria. Bisogna vedere se agli aretini interessa. Mi sono sempre posto questa domanda: è una scelta o un fenomeno storico?».
 

Eppure siamo seduti su un giacimento culturale.
«Già, Paolo Uccello, Signorelli, Vasari, Piero della Francesca. Io l’ho proposto una volta alla Rai quando c’era l’Intervallo, metteteci le immagini di Arezzo. Vi manca un’immagine identitaria e popolare anche se siete uno dei principali centri urbani della Toscana con Siena e Firenze, siete nel comprensorio archeologico con Cortona e Chiusi. Eppure non vi sognereste mai di creare un’alleanza turistica con Perugia e l’Umbria. E’ una banale evidenza, ma non ve ne frega niente. L’area chiantigiana è conosciuta per il vino eppure la bottiglia ad Arezzo non funziona, non viene percepita».
 

Forse preferiamo il turismo d’élite.
«Lei ha detto la parola magica, se veramente voleste il turismo d’élite sareste già a metà di un piano di comunicazione. Avete delle strutture alberghiere carine e simpatiche, ma esiste un libriccino che le racconta? C’è qualcuno che propone un fine settimana tra Assisi, Cortona e Arezzo? Si può partire dal microturismo, da quello che si emoziona vedendo la Madonna del Parto».
 

Secondo Sgarbi, Agnelli e Berlusconi sono vissuti invano perchè non hanno visto gli affreschi di Piero.
«Sono d’accordo con lui, su questo è geniale. Io metterei la gite obbligatorie per i parlamentari, come a scuola, dieci tappe italiane a cominciare dall’itinerario pierfrancescano alle Ville Venete, dalla pianura padana da Mantova a Cremona e i suoi violini fino al meridione prima che finiscano per distruggerlo. Senza un progetto, senza chiedersi se questo passato possa servire a fare il futuro, e non solo turistico, gli italiani non saranno mai più competitivi, nemmeno nel campo dei pullover e delle automobili».

SILVIA BARDI