Fort Knox, la battaglia si sposta sui soldi. Pm: confiscate 36 milioni a Kamata & c.

Saltato l’appuntamento di oggi. Si torna in aula a settembre con 5 udienze. Già richiesti 30 patteggiamenti e 30 proposte di rito abbreviato

Finanziere impegnato enll'inchiesta

Finanziere impegnato enll'inchiesta

Arezzo, 28 giugno 2017 - Un po'  enfaticamente è la battaglia del «grano», cioè dei quattrini. Perchè nessuno, non fra i big dell’inchiesta, finirà in galera per il traffico d’oro di Fort Knox, il più grosso contrabbando di verghe e lingotti mai scoperto fra Arezzo e la Svizzera, ma il Pm Marco Dioni punta tutto adesso sui «piccioli», come li chiamava il giudice Falcone, cioè sulla capacità dello stato di recuperare quanto più possibile dei soldi che sono evaporati nel tragitto oltre il confine di Chiasso, dove ad attendere le auto (col doppiofondo) degli spalloni c’erano gli uomini del capo dei capi dell’organizzazione, l’imprenditote elvetico-albanese Petrit Kamata.

Sarà quello il grande tema di quanto resta di un’udienza preliminare che avrebbe dovuto concludersi oggi ma che per il prolungarsi delle schermaglie fra accusa e difesa è stata prolungata a settembre. Cinque date fino al 4 ottobre, che dovrebbe essere finalmente il giorno nel quale il Gup Marco Cecchi si pronuncia su 30 patteggiamenti (entro i due anni di carcere, richiesti da quasi tutti i big coinvolti), 18 richieste di rito abbreviato e una spicciolata di imputati (dovrebbero essere 9 alla fine) che scelgono invece di andare a processo ordinario.

In sostanza, di quello che avrebbe dovuto essere il padre di tutti i processi rimarrà ben poco (un altro Vip come Andrea Squarcialupi, amministratore delegato di Chimet ha chiesto l’affidamento in prova e se la caverà senza tracce sulla fedina), almeno dal punto di vista penale: con le condanne e i patteggiamenti che si profilano e che riguardano in primo luogo lo stesso Kamata e l’orafo Michele Ascione, ultimo referente aretino dell’organizzazione, le sanzioni (il reato è stato derubricato da riciclaggio a ricettazione) saranno poco più che simboliche.

Non è affatto simbolico, invece, il retroscena economico della vicenda. Perchè gli imputati che hanno scelto i riti alternativi devono almeno pagare in termini finanziari per il loro coinvolgimento. In altre parole devono risarcire lo stato per l’oro che è passato di mano, rigorosamente al nero. E qui il duello si farà veramente pesante. In mano il Pm Marco Dioni, che segue le indagini fin dagli albori, ha in mano sequestri di beni per 36 milioni. Lui vorrebbe che venissero tutti confiscati, cioè incamerati dalla pubblica amministrazione, a parziale ristoro di un traffico che la Finanza stima aver raggiunto i 180 milioni.

Di tutt’altro parere gli avvocati difensori. Loro sono convinti di potersela cavare con molto meno, al peggio con una quindicina di milioni che transitano nelle casse pubbliche. L’ago della bilancia diventa a questo punto il giudice Cecchi. Sta a lui, in piena autonomia, decidere quanto gli imputati devono pagare materialmente e quindi quanto dei beni sotto sequestro finirà confiscato. Lo farà ovviamente dopo aver sentito le parti. Che se un accordo lo hanno di fatto raggiunto sulle pene o comunque sui riti abbreviati, restano lontanissime per quanto riguarda i quattrini. E’ presumibile, dunque, che da settembre in poi ognuno porterà i suoi argomenti giuridici, anche se poi l’ultima parola spetterà al Gup. E allora dove finiscono i «piccioli» di Fort Knox?