Fanfani e il caso che scotta: ha raccolto lui il racconto del Pm Musti

Da presidente della commissione del Csm ha guidato la seduta in cui il magistrato accusò Scafarto e «Ultimo» di essere due esagitati. Dovrà gestire la pratica su Woodcock

Giuseppe Fanfani

Giuseppe Fanfani

Arezzo, 19 settembre 2017 - Per due mesi si è tenuto il segreto quasi con non chalance. A chiunque lo incontrasse per strada, quando tornava ad Arezzo, Giuseppe Fanfani, l’ex sindaco Pd volato al Csm e ora presidente della prima commissione di Palazzo dei Marescialli, avrebbe potuto dire come il colonnello Ultimo al procuratore capo di Modena Lucia Musti: ho una bomba per le mani che può esplodere in qualsiasi momento. E invece niente, dal Nipotissimo solo sorrisi di circostanza e qualche commento fuggevole sulle vicende aretine.

Ma in due mesi non si è lasciato sfuggire una sola parola sulla deposizione del capo dei Pm modenesi che poi ha mandato in fibrillazione l’intera politica nazionale. Dire che lui sapeva tutto delle accuse di Lucia Musti nei confronti del capitano Gianpaolo Scafarto e del suo ex capo Sergio Di Caprio, appunto l’Ultimo che arrestò Totò Riina. Sapeva tutto perchè quell’audizione choc l’ha presiediuta proprio lui, con a fianco i consiglieri Piergiorgio Morosini e Antonello Ardituro, entrambi di Area, la corrente di sinistra della magistratura, anche loro due vecchie conoscenze delle cronache cittadine.

Furono due di quelli che condussero l’istruttoria, sempre in prima commissione ma Fanfani non era ancora presidente, nei confronti di un altro procuratore capo, quello di Arezzo Roberto Rossi, poi suggellata da un proscioglimento pieno. Allora Rossi fu accusato di di aver fatto da consulente di Palazzo Chigi, di non essere estraneo insomma all’entourage renziano, anche se poi venne fuori che l’incarico era di tutt’altra natura.

Adesso, siamo di fronte quasi ad una nemesi: Renzi e i renziani che vanno all’attacco su Consip basandosi sulle rivelazioni del procuratore Musti: Scafarto e Di Caprio erano due «esagitati», due «matti», l’informativa redatta da Noe di cui facevano parte era «scritta coi piedi».

Un'autentica patata bollente, che Fanfani ha gestito con aplomb «democristiano», nello stile che gli è proprio visto che lui proprio dalla Dc viene, ammaestrato dallo zio Amintore, uno dei Cavalli di Razza della Dc. Silenzio finchè il caso non è deflagrato sui giornali per la solita fuga di notizie quando gli atti sono stati trasmessi alla procura di Roma, e silenzio anche dopo: di questa storia hanno parlato tutti, politici, giornalisti e magistrati, ma a lui nessuno ha cavato una parola di bocca. Ed è inutile cercarlo: non parla, fanno sapere gli intimi.

La sua posizione è d’altronde delicatissima. Al Csm lo volle, nel settembre 2014, proprio il Pd di marca renziana e ora si trova a gestire un caso che può rinvigorire SuperMatteo oppure trasformarsi in un’ulteriore affondo contro l’ex premier. Di mezzo, oltretutto, c’è la sorte di uno dei Pm più famosi e discussi d’Italia, l’azzimato John Woodcock. Il procedimento nell’ambito del quale ha parlato Lucia Musti è infatti aperto proprio nei confronti del magistrato napoletano: la prima commissione, quella sulle incompatibilità ambientali delle toghe, deve decidere se ci sono gli elementi per disporne il trasferimento ad altra sede o se può restare in una delle procure più calde d’Italia.

Lo sfondo è torbido: rivelazioni di stampa e confidenze di Scafarto a Modena: arriveremo fino a Renzi. Un golpe, hanno tuonato dal Pd. Ma chi pensa che Fanfani si farà coinvolgere nelle polemiche sbaglia di grosso. Lui ama il parlare forbito e lo stile felpato. E’ vero che da sindaco qualche esternazione se l’è anche concessa, ma da quando è al Csm è tornato alle antiche abitudini democristiane: mai esporsi troppo. Le patate bollenti è meglio maneggiarle con i guanti.