Etruria, in vista un nuovo rinvio Bce: Ubi chiede altri ritocchi

Forse slitta l'esame di Francoforte fissato per domani. Ma ormai il matrimonio è imminente

Bertola e Nicastro

Bertola e Nicastro

Arezzo, 7 dicembre 2016 - Se è una telenovela è di quelle interminabili, stile Il segreto, produzione di punta Mediaset, che durano per anni, con una trama più intricata delle anse di un fiume. E’ così anche per Banca Etruria, dove la parola fine sembra quasi proibita, tanto che neppure l’appuntamento del Supervisory Board di Bce, fissato per domani, potrebbe essere quello decisivo. Tutt’altro: nuovo rinvio, nuova puntata. Almeno nelle previsioni della vigilia. Che succede? Che Ubi, la principale, anzi unica, candidata a questo matrimonio che, al contrario di quello di Don Abbondio, s’ha da fare, chiede ancora tempo.

Non tutti i conti che escono dalla Due Diligence condotta da Deloitte convincono Victor Massiah e il suo staff. Di qui la ricerca di ulteriori chiarimenti e di ulteriori soluzioni tecniche per far quadrare i numeri. Il che dovrebbe tradursi nel fatto che l’accordo Ubi-Good Bank non sarà all’ordine del giorno della riunione Bce fissata a Francoforte per il giorno dell’Immacolata, festa da noi ma non all’estero.

Se ne riparlerà al vertice successivo, addirittura potrebbe essere convocato un supervisory board straordinario per affrontare specificamente la questione. La fretta non manca: ormai siamo agli sgoccioli della terza proroga concessa da Bruxelles per la cessione di Etruria & C. e poi c’è il problema di un sistema creditizio nazionale in perenne fibrillazione (le Good Bank appunto sono una delle spine), tanto è vero che due autorevolissimi giornali finanziari internazionali, il Wall Street Journal e il Financial Timessono tornati ad esprimere dubbi sulla capacità di tenuta delle banche italiane dopo la vittoria del No al Referendum.

Il Financial Times è lo stesso organo della City che alla vigilia del voto aveva esplicitamente citato Etruria (insieme alle altre Good Bank, alle Popolari venete e a Mps) tra le banche che potevano fallire in caso di sconfitta di Renzi. In casa Bpel allora le previsioni del quotidiano britannico furono accolte con un certo scetticismo («Ne abbiamo vinte di peggio di un’eventuale vittoria del No») ma tutti concordano sul fatto che a questo punto è meglio chiudere le trattative al più presto, in modo da evitare speculazioni politiche e finanziarie.

Certo, l’instabilità generata dallo stato di pre-crisi del governo Renzi non aiuta, anche se adesso l’attenzione di Wall Street Journal e Financial Times si concentrano su Mps. Ma cosa c’è che ancora non torna ai maghi dei numeri di Ubi? Innanzitutto ci sono alcune passività, generate dalle cause contro i clienti che non sono rientrati con i finanziamenti, che Massiah vorrebbe lasciare all’attuale gestione del Fondo di risoluzione. E poi ci sono dei crediti formalmente ancora in bonis ma che di fatto sono ormai allo stato di incaglio, anche se manca la delibera di mora da parte delle banche.

Infine le revocatorie dei fallimenti, ossia i pagamenti effettuati dai debitori in default nei sei mesi precedenti la sentenza. In tutto la stima è che si parli di un centinaio di milioni che Ubi vorrebbe non accollarsi. Sarà uno degli ultimi temi di una trattativa nella quale Massiah ha il fiato sul collo di Banca d’Italia, che spinge per chiudere, ma in cui non rinuncia a discutere anche delle partite minori. Alla fine, salvo sorprese clamorose, la cessione si farà e col via libera di Bce, ma come in tutti i contratti che si rispettano le clausole si discutono. Fino in fondo.

di Salvatore Mannino