Arezzo, 16 aprile 2014 - SARÀ LA PROVA del Dna, quella che scagionò clamorosamente, per un banale scambio di reperti, uno dei principali indiziati, a incastrare gli ultimi accusati per il furto sel secolo, il maxi-colpo alla Salp di Poggio Bagnoli che l’8 marzo 2011 (in pieno assedio dei banditi al distretto orafo) fruttò oltre tre milioni di euro? Chissà, sarebbe la classica ironia della sorte. Nella quale crede fermamente il Pm Marco Dioni, grande regista delle indagini, che ha intenzione di chiedere un nuovo esame dei codici genetici.

Stavolta per capire una volta per tutte chi era alla guida della gigantesca ruspa che, usata come un ariete, fu usata per sfondare la parete esterna della fabbrica orafa. Aprendo un varco attraverso la quale gli uomini alla Ocean’s Eleven (in realtà, e più prosaicamente) una banda di pugliesi della zona di Trani, Andria e Cerignola, ebbero tutto il tempo di fare man bassa, prima di scappare dopo aver bloccato le strade di un paese intero per ritardare l’inseguimento. Raid da film, appunto, che ebbe l’onore di finire persino sull’edizione on line del paludato Times di Londra.

Bene, l’ipotesi degli investigatori è che alla guida del gigantesco escavatore ci fosse Gianfranco Di Niccolo, 31 anni, artigiano e cavatore del marmo di Trani. Uno di quelli che adesso affrontano l’udienza preliminare nell’ultima tranche di un processo che si è spezzettato nei tempo fra riti abbreviati, un primo dibattimento e questo ultimo troncone. Con lui sotto accusa ci sono Salvatore La Gioia, 56 anni, titolare di un’impresa di movimento terra ad Andria, Mario La Forgia, 43 anni, pure lui di Andria, autotrasportatore e corriere presunto del braccio agganciato alla gru, e Alfonso Sforza, quarantenne, che il gancio lo avrebbe montato. Prima di riprendere l’autostrada insieme a La Forgia. Del successo del colpo avrebbero saputo solo dalla Tv.

CHI È ALLORA che partecipò materialmente al colpo? Potrebbe dirlo non il crine di cavallo caro ad Edoardo Vianello ma il capello che gli inquirenti hanno ritrovato sul sedile dell’escavatore. Con l’esame del Dna, appunto, capace di risolvere ogni dubbio.

Il Pm Dioni era intenzionato a chiedere la prova, sotto forma di incidente probatorio, già nell’udienza preliminare fissata per ieri. Poi il solito inghippo procedurale: il Gip Anna Maria Lo Prete è incompatibile per aver svolto altri atti nel corso delle indagini e dunque bisognerà tornare in aula con un altro giudice. Al quale verrà finalmente sottoposto il famoso quesito.

PROVA REGINA, il Dna, quando riesce, ma anche arma a doppio taglio. Lo si è visto nel caso di Pietro Policastro, uno dei primi arrestati per il colpo e anche uno di quelli che parevano rientrare sicuramente tra gli autori. Quando una soffiata aveva indirizzato l’inchiesta negli ambienti della malavita di Andria e Trani, lui e altri sospettati erano stati convocati con una scusa al commissarito di Ps e inviati a prendersi una tazzina di caffè. I poliziotti avevano poi inviato le tracce di saliva al laboratorio centrale della Scientifica a Roma, dal quale era uscito un verdetto apparentemente inattaccabile: è di Policastro il codice genetico ricavato dalla macchia di sangue che i banditi avevano lasciato nel fuoristrada usato per scappare.

Tutti convinti meno l’avvocato di Policastro che nel corso del rito abbreviato tentò il colpo gobbo, ottenendo la ripetizione della prova del Dna. E lì la sorpresa. Perchè il codice non apparteneva al sospettato, c’era stato uno scambio di reperti prima dell’invio a Roma. In realtà, il Dna era quello di Carmine Fratepietro, un altro di coloro che adesso devono affrontare l’udienza preliminare. Caso chiuso? In una storia come questa mai dire mai. Almeno fino all’ultimo atto del processo.