Arezzo, 13 giugno 2012 - Ci sono più cse fra cielo e terra di quante non ne conosca la nostra filosofia. L’Amleto di Shakespeare? No, l’economia aretina ai tempi della grande crisi. Chi lo avrebbe detto solo qualche anno fa che un giorno non i gioielli, vanto di questo distretto orafo (il primo del paese, ma i lingotti sarebbero diventati il vero traino di un export che continua a segnare record su record?

E’ vero che si tratta di numeri drogati dal rally impazzito del prezzo della materia prima, ma ormai sono mesi e mesi che si va avanti di balzo in balzo. E cavarsela solo continuando a dire che le cifre vanno depurate dalla corsa verso l’alto dell’oro, il più classico dei beni rifugio in tempi difficili, comincia a essere un po’ semplicistico. Questo giornale ha provato a scavare un po’ più a fondo e ha scoperto una realtà che era già ben nota agli addetti ai lavori. Cioè che qui si esportano quattro volte più lingotti che non gioielli. Sempre di oro si tratta, ma le considerazioni cambiano.

Intanto siamo di fronte a un segnale quantomeno ambiguo. Perchè se i lingotti vanno all’estero vuol dire che il distretto orafo non è più in grado di lavorarli tutti come faceva una volta. E non è un dato positivo per la manifattura. Ma c’è un altro fenomeno che balza agli occhi. Cioè la crescita prepotente delle aziende che il metallo lo producono senza lavorarlo. Sono essenzialmente due e di una, la Chimet, si sapeva già tutto. Ad esempio che è la prima impresa aretina per fatturato, quasi un miliardo e mezzo. L’altra, invece, la Italpreziosi, è una sorpresa per chi è fuori dal settore.

Un gigante cresciuto silenziosamente fino a fatturare circa un miliardo: dieci volte la UnoAerre. E’ il mondo che cambia, è il trading, la filiera dell’oro dalla miniera fin quasi al negozio che sorpassa la produzione. Con tutto quel che significa, anche in termini di occupazione: i nuovi protagonisti hanno relativamente pochi dipendenti in relazione alle loro dimensioni. Una risorsa e anche un problema.

Ma i numeri dell’export ci dicono anche che la manifattura aretina non più soltanto oro, che la monocoltura ha lasciato spazio alla varietà. Basti guardare agli aumenti da primato negli affari con l’estero di settori come l’elettronica, la pelletteria, le calzature. Una conferma di come il sistema produttivo aretino sia ormai diversificato, di come abbia più di un’opzione per resistere alla tempesta. Che soffia impetuosa, ma che non ha ancora piegato la capacità di adattamento delle nostre aziende, piccole e grandi. In un momento così è già un motivo di ottimismo.