Arezzo, 26 luglio 2011 - Non conosceremo mai il volto dell’aretino numero centomila. Non avremo mai la foto del professore numero 36. Lui, quello che magari aveva preso casa a Siena, aveva fatto scorta di panforte, girava con i colori delle contrade: ma alla fine è rimasto ad Arezzo. No, non sapremo mai chi sarà stato a farci superare la quota dei 35 docenti. E in fondo non conta neanche un granché.

Un po’ perché ognuno di quei 37 professori, perché alla fine siamo arrivati perfino larghi, è un po’ come l’ultimo tifoso della curva: il dodicesimo uomo in campo. Un po’ perché è lecito sussurrare vittoria ma non certo cantarla. Due prof, due prof tra la chiusura di un’esperienza straordinaria, pluripremiata a livello nazionale, e la sua salvezza sul filo di lana DUE prof tra la massima serie delle città universitarie e la retrocessione tra quelle che non ce l’hanno: e che, cieche come i personaggi di Saramago, forse neanche se ne dolgono tanto. Avevamo chiesto al preside di ripetere l’impresa di febbraio: c’è riuscito, non avevamo dubbi. Ma ora è il momento di volare alti. Alti. Perché l’ultimo filo di grasso ce lo siamo divorati nel consiglio di facoltà di ieri. Se tra un anno niente sarà cambiato, beh basteranno due prof a farci fare il passo del gambero. Due, due soli: gli stessi davanti ai quali ora mettiamo bandiere sui pennoni.

Un’idea? Se siamo intenzionati a fare la ola e poi metterci ad aspettare l’anno prossimo, tanto meglio prendere i due prof e trasfeirrli di autorità a Siena. Significherebbe solo allungare l’agonia, guadagnare un pugno di settimane, ritrovarci ad affogare in una «nuttata» infinita. Ricuciamo il legame con l’università, trasciniamola al centro della nostra città.
E chiediamo agli amministratori, a chi decide per noi, che non passino i prossimi dodici mesi a dire peste e corna di Siena, a mimare una faccia delusa, a fare il «muso» per farsi sentire più forte o forse per nascondere le proprie responsabilità.

No, è il momento di guardarsi negli occhi, diretti, come gli uomini veri. Il polo è pronto a inventare nuove soluzioni, a raccordarsi con altre università, ad attaccare per non prenderle? Beh, lo faccia e un applauso lo sommergerà. Ma senza dimenticarsi di dare un occhio alla difesa. Perché la cosa più bella è dominare il campo, segnare un gol e vincere la partita. Ma la cosa più assurda sarebbe farsi infilare in contropiede e ritrovarsi con un cerino in mano. E un ultimo pezzetto di panforte, da «rodere» piano sotto i denti.