Arezzo, 22 luglio 2011 - Quando la terra trema non hai scelta: prima scappi e poi rimetti la casa in sicurezza. Lo sa bene chiunque abiti in una zona a rischio.Lo sanno benino in Valtiberina, le cui zolle profonde qualche sgambetto spesso lo tirano. Ce ne dimentichiamo quando i sismografi tacciono e a tremare sono altre certezze. Per la seconda volta l’Università trema, trema per dei piccoli numeri.

D’inverno mancava un pugno di iscritti, tanto che qualcuno si fece avanti per tornare tra i banchi. D’estate rischiano di mancare due o tre professori. La terra sotto le cattedre trema, corriamo pure ai ripari. Lunedì il preside, come già fece con sapienza qualche mese fa, eviti il crollo. Ma poi ricominciamo da capo. Ricominciamo a renderci conto che l’università non è il fiore all’occhiello, nè l’oliva di un aperitivo: ma è un terreno dal quale non possiamo prescindere.
 
Perderla ci riporterebbe indietro anni luce, sul piano culturale, ma anche su quello del prestigio e della potenzialità economica. Abbiamo pianto per la crisi dell’Arezzo, ed era giusto così. Ma lo stesso meccanismo non scatta davanti al cerino acceso che sfrigola tra le pietre del Pionta. Suona come una questione per pochi eletti, un po’ di studenti, le loro famiglie, qualche prof. Sul filo di una leggerezza che incrina i rapporti tra la città e un mondo. E’ bene che ci sia ma in fondo se non ci fosse cosa cambierebbe? E così continuiamo a giocare con il fuoco. Sì, stavolta è una scelta quasi tutta interna.

Ma siamo sicuri che dietro certe «fughe» non ci sia anche il retrogusto di chi non si è mai sentito indispensabile? Di chi si sentirebbe più tutelato altrove? Altrove, dove una facoltà come Lettere venga valorizzata come merita. Ben vengano economia, finanza, quello che ultimamente abbiamo perso e dell’altro ancora. Ma teniamoci stretti, strettissimi anche i più umanistici tra gli studi. Perché sono il lievito di un dibattito senza il quale tutto sarebbe più difficile. Perché sono il nocciolo di una presenza universitaria che finiremmo per rimpiangere. E quando ormai sarebbe troppo tardi.